«Vieni con me», lo esortò e Oy si mosse come per voler saltare su al suo fianco. Poi, senza assolutamente sapere perché, Susannah aggiunse: «Ci sono altri mondi oltre a questo».
Oy si fermò appena ebbe pronunciato quelle parole. Si sedette. Poi si rialzò e lei per un momento ancora sperò: forse era rimasto ancora qualcosa del ka-tet, un dan-tete-tet, in una versione di New York dove la gente girava al volante di Takuro Spirit e beveva Nozz-A-La, facendosi fotografare con macchine fotografiche Shinnaro.
Oy invece tornò al piccolo trotto ad accucciarsi di fianco agli stivali consumati del pistolero. Avevano macinato molta strada, quegli stivali, moltissima. Miglia e ruote, ruote e miglia. Ma ora la loro fatica era quasi compiuta.
«Olan», disse Oy e la finalità nella sua strana vocina spinse un macigno sul cuore di Susannah. Rivolse occhi pieni di asprezza sul vecchio con la grossa pistola al fianco.
«Eccoti servito», lo apostrofò. «Hai anche tu la tua malia, vero? L'hai sempre avuta. Hai portato Eddie a una morte e Jake a due. Ora anche Patrick e persino il bimbolo. Sei felice?»
«No», rispose lui e lei vide che era sincero. Non ricordava di aver mai visto tanta tristezza e tanta solitudine su un volto umano. «Non sono mai stato più lontano dalla felicità, Susannah di New York. Vuoi cambiare idea e restare? Vuoi compiere con me quest'ultimo breve tratto di strada? Questo mi renderebbe felice.»
Per un momento pensò che lo avrebbe ascoltato. Che avrebbe semplicemente girato il suo piccolo veicolo elettrico volgendo la schiena alla porta - che aveva un lato solo e non faceva promesse - e avrebbe proseguito con lui fino alla Torre Nera. Un altro giorno di cammino sarebbe bastato; si sarebbero accampati nel pomeriggio in maniera da arrivarci l'indomani al tramonto, come lui desiderava.
Fu un momento sconvolgente, poi ricordò il sogno. Il canto. Il giovane che le offriva una tazza di cioccolata calda, quella buona, mit schlag.
«No», rispose sottovoce. «Correrò i miei rischi.»
Pensò allora che lui l'avrebbe agevolata, avrebbe accettato la sua decisione lasciandola andare. Invece la sua collera - no, la sua disperazione - esplose in una protesta accorata. «Ma non puoi essere sicura! Susannah, pensaci... se quel sogno fosse stato solo un trucco e una malia? Se le cose che vedrai all'aprirsi della porta non fossero altro che trucchi e incantesimi? Se passandoci attraverso ti trovassi semplicemente a precipitare nello spazio della contezza?»
«Allora illuminerei l'oscurità con il pensiero di coloro che amo.»
«E potrebbe funzionare», ammise lui, con un'amarezza nella voce che non gli aveva mai udito. «Per i primi dieci anni... o venti... o financo cento. Ma poi? Per il resto dell'eternità? Pensa a Oy! Credi che abbia dimenticato Jake? Mai! Mai! Mai in vita tua! Mai nella sua! Sente che c'è qualcosa che non va! Susannah, non farlo. Io ti prego, non andare. Mi metterò in ginocchio, se può servire.» E, con orrore, Susannah vide che lo stava facendo davvero.
«Non servirà», s'affrettò a ribattere. «E se questa dev'essere l'ultima immagine che mi porterò via di te, così mi dice il cuore, allora fai che non sia l'immagine di te in ginocchio. Tu non sei un uomo genuflesso, Roland, figlio di Steven, né mai lo sarai, e io non ti voglio ricordare così. Io ti voglio vedere in piedi, come eri a Calla Bryn Sturgis. Come eri con i tuoi amici a Jericho Hill.»
Roland si raddrizzò e andò da lei. Per un attimo Susannah temette che avesse intenzione di trattenerla con la forza ed ebbe paura. Lui invece le posò per un momento la mano sul braccio e subito la ritrasse. «Te lo chiedo ancora una volta, Susannah. Sei sicura?»
Susannah raggirò il proprio cuore e vide che lo era. Era consapevole dei rischi, tuttavia sì... era sicura. E perché? Perché la legge di Roland era la legge della pistola. La legge di Roland era la morte per coloro che gli viaggiavano accanto. Lo aveva dimostrato più di una volta, fin dai primi giorni della loro ricerca, anzi, già prima, da quando aveva sorpreso il cuoco Hax a tramare il tradimento e aveva fatto sì che fosse messo a morte appeso per il collo. Era tutto per una giusta causa (per quello che lui chiamava il Bianco), non ne dubitava, ma intanto Eddie giaceva nella sua tomba in un mondo e Jake in un altro. Era sicuro che lo stesso destino fosse in attesa di Oy e del povero Patrick.
E che la loro morte non fosse lontana.
«Sono sicura», dichiarò.
«Va bene. Mi dai un bacio?»
Lei lo prese per il braccio e lo tirò giù per avvicinare le labbra alle sue. Quando inalò, respirò il fiato di mille anni e diecimila miglia. E, sì, sentì il sapore della morte.
Ma non per te, pistolero, pensò. Per altri, ma mai per te. Che io possa sottrarmi alla tua malia e che mi sia di grazia.
Fu lei a staccarsi per prima.
«Vuoi aprire la porta per me?» gli domandò.
Roland andò alla porta, afferrò la maniglia e quando esercitò pressione, essa ruotò senza opporgli resistenza.
Ne uscì uno sbuffo d'aria, una ventata abbastanza forte da sollevare i lunghi capelli di Patrick. Portò con sé qualche fiocco di neve. Susannah scorse erba ancora verde sotto una brina leggera, un sentiero e una ringhiera di ferro. Un coro di voci cantava What Child Is This, proprio come nel suo sogno.
Poteva essere Central Park. Lo poteva essere davvero. Il Central Park di un altro mondo appartenente allo stesso asse, forse, e non quello da cui era giunta lei, ma abbastanza simile perché con il tempo non ne notasse più le differenze.
O forse, come aveva insinuato lui, era una malia.
Forse era il buio della contezza.
«Potrebbe essere un trucco», disse ancora lui, quasi certamente per aver letto nei suoi pensieri.
«La vita è un trucco, l'amore una malia», gli rispose. «Forse ci incontreremo di nuovo nella radura in fondo al sentiero.»
«Se è così che dici, che così sia», ribatté Roland. Allungò una gamba, piantò nel terreno il tacco logoro dello stivale e s'inchinò. Oy cominciò a piangere, ma rimase saldamente di fianco allo stivale sinistro del pistolero. «Addio, mia cara.»
«Addio, Roland.» Poi guardò davanti a sé, prese un bel respiro e diede gas. Lo scooter partì.
«Aspetta!» esclamò Roland, ma lei non si girò, non lo guardò più. Passò attraverso la porta, che si richiuse sbattendo dietro di lei con uno schiocco secco e perentorio che il pistolero conosceva fin troppo bene, per averlo sognato fin dall'inizio del suo lungo e febbrile cammino sulla sponda del Mare Occidentale. Il coro natalizio cessò e rimase solo il suono trapuntato di solitudine del vento della prateria.
Roland di Gilead si sedette davanti alla porta, che già era diventata vecchia e insignificante. Non si sarebbe riaperta mai più. Si prese il volto nella mani. Rifletté che se non li avesse amati, non si sarebbe mai sentito così solo come adesso. Non di meno il riaprirsi del suo cuore non andò ad aggiungersi ai suoi molti rimpianti, nemmeno in quel momento.
19
Più tardi - perché c'è sempre un più tardi, non è vero? - preparò la colazione e si costrinse a mangiare la sua parte. Patrick divorò la propria con solerte appetito, quindi si ritirò per i suoi bisogni mentre Roland faceva i bagagli.
C'era un terzo piatto ed era ancora pieno. «Oy?» chiamò Roland inclinandolo verso il bimbolo. «Nemmeno un boccone?»
Oy guardò il piatto, poi indietreggiò con decisione di due passi. Roland fece un cenno con il capo e gettò via il cibo avanzato, spargendolo nell'erba. Chissà che non passasse di lì Mordred e non trovasse qualcosa di suo gradimento.
A metà mattina ripresero il cammino. Roland trainò Fior II e Patrick camminò accanto a lui a testa bassa. E presto il battito della Torre invase di nuovo la testa del pistolero. Molto vicina ora. Quel pulsare costante scacciò dalla sua mente tutti i pensieri su Susannah e ne fu contento. Si offrì a quel battere assiduo e lasciò che spazzasse via da lui anche tutto il resto, pensieri e dolori.
Commala-come-come cantava la Torre Nera, ora appena oltre l'orizzonte. Commala-come-come, Roland sta giungendo.
Commala-come-come, il tuo viaggio sta finendo.
2
Mordred
1
Il dan-tete stava guardando quando il tizio dai capelli lunghi che ora viaggiava con loro afferrò la spalla di Susannah per mostrarle gli hob arancione che danzavano in lontananza. Mordred la guardò ruotare su se stessa ed estrarre una delle grosse pistole del Papà Bianco. Per un momento gli occhi di vetro del vedi-lontano che aveva trovato a Odd's Lane tremarono nella sua mano, e questo fu per l'esuberanza con cui incitò mentalmente la sua Mamma Cornacchia a sparare all'Artista. Come si sarebbe straziata poi nel senso di colpa! Un rimorso più devastante di una lama di scure con poco filo, yar! Non era nemmeno da escludere che, sopraffatta dall'orrore della sua colpa, si appoggiasse alla testa la canna di quella stessa pistola e premesse il grilletto una seconda volta, e allora che spettacolino si sarebbe trovato davanti agli occhi al suo risveglio il Vecchio Papà Bianco?
Ah, che sognatori sono i bambini.
Non andò così, naturalmente, ma c'era stato ancora molto da spiare. In alcuni casi, con difficoltà però. Perché non era solo l'eccitazione a far tremare il binocolo. Ora indossava indumenti caldi, quelli umani di Dandelo, uno sopra l'altro, eppure aveva ancora freddo. Se non quando aveva caldo. Ma caldo o freddo, tremava comunque come un vecchietto sdentato di fianco al caminetto. La situazione si era andata gradualmente aggravando da quando si era lasciato alle spalle la casa di Joe Collins. La febbre gli faceva scorribande nelle ossa come un vento di tempesta. Mordred non aveva più fa-fame (perché Mordred aveva perso l'appetito), ma Mordred era ma-malato, ma-malato, ma-malato.
In verità temeva che Mordred stesse mo-morendo.
Ciononostante spiò il manipolo di Roland con grande interesse e, dopo che fu gettata altra legna sul fuoco, vide ancora meglio. Vide apparire la porta, sebbene non arrivasse a leggere i simboli che vi erano incisi. Aveva capito che era stato l'Artista a crearla disegnandola: che talento divino il suo! Mordred moriva dalla voglia di mangiarlo se solo un simile talento fosse trasmissibile! Ne dubitava, l'aspetto spirituale del cannibalismo era di gran lunga sopravvalutato, ma che male c'era a provarci?
Spiò il loro conciliabolo. Vide - e anche capì - le sue implorazioni all'Artista e al Botolo, le sue piagnucolose circonvenzioni
(vieni con me così non devo andarci da sola, vieni, sii cavaliere, anzi, tutti e due, fate i bravi, oh bu-hu)
e gioì del suo dolore e della sua furia quando le sue suppliche furono respinte dal ragazzo e dall'animale, Mordred gioì anche se sapeva che così il suo compito sarebbe diventato più difficile. (Un po' più difficile; che ostacolo potevano essere per lui un giovane mutante e un bimbolo, dopo che si fosse trasformato e avesse sferrato il suo attacco?) Per un momento pensò che, presa dalla collera, potesse sparare al Vecchio Papà Bianco con la sua stessa pistola e questo Mordred non lo desiderava proprio. Il Vecchio Papà Bianco era per lui e lui soltanto. Così gli aveva detto la voce che arrivava dalla Torre Nera. Ma-malato era di sicuro, mo-morente forse, ma il Vecchio Papà Bianco era stato lo stesso riservato a lui, non alla Mamma Cornacchia. La quale, miserabile, avrebbe lasciato marcire la carne senza staccarne un solo morso! Ma non sparò. Lo baciò invece. Mordred non volle vedere quella scena, lo avrebbe fatto stare ancora più male, così posò il binocolo. Lo mise nell'erba alla base di una piccola macchia di ontani, tremando, patendo caldo e freddo, cercando di non vomitare (aveva passato tutta la giornata precedente a vomitare e defecare, tanto che tutti i muscoli addominali gli dolevano per lo sforzo di quel traffico pesante in entrambe le direzioni e nulla gli saliva in gola se non dense filacce mucose e niente gli usciva da dietro se non una broda marrone e scoregge potenti), e quando guardò di nuovo attraverso le lenti, ebbe appena il tempo di vedere la coda di quel piccolo carretto elettrico scomparire attraverso la porta portandosi via la Mamma Cornacchia. Qualcosa usciva turbinando dalla porta. Polvere, forse, ma a lui sembrò neve. E sentiva anche cantare. Una melodia che gli diede un voltastomaco quasi tremendo come quello per averla vista baciare il vecchio Papà Bianco pistolero. Poi la porta si richiuse pesantemente dietro di lei e il canto scomparve e il pistolero se ne rimase seduto lì vicino, con la faccia nelle mani, bu-hu, sob-sob. Il bimbolo andò a posargli il lungo muso su uno stivale come per offrirgli consolazione, ma quanta tenerezza, quanta vomitevole tenerezza. Ormai era l'alba e Mordred dormì un po'. Quando si svegliò, fu alla voce del Vecchio Papà Bianco. Il nascondiglio di Mordred era sottovento e le parole gli arrivarono chiare: «Oy? Nemmeno un boccone?» Il bimbolo però non ne volle sapere e il pistolero aveva buttato via il cibo che avrebbe dovuto mangiare il suo piccolo houken peloso. Più tardi, dopo che se furono andati (il Vecchio Papà Bianco pistolero si avviò trainando lentamente nei solchi della Via della Torre il carretto che il robot aveva costruito per loro, con la testa incassata nelle spalle curve), Mordred raggiunse furtivo il loro bivacco. Mangiò in effetti qualcosa del cibo gettato - sicuramente non era stato avvelenato se Roland aveva sperato che scendesse nella gola del bimbolo - ma si fermò dopo i primi tre o quattro pezzi di carne, sapendo che se avesse proseguito, il suo stomaco avrebbe ributtato fuori tutto, sparandolo a nord e a sud. Non poteva permetterselo. Se non teneva dentro almeno un po' di nutrimento, non avrebbe avuto le forze necessarie per seguirli. E doveva seguirli, doveva rimanere loro attaccato ancora per un po'. Sarebbe stato per quella notte. Non c'erano alternative, perché l'indomani il Vecchio Papà Bianco avrebbe raggiunto la Torre Nera e allora sarebbe stato quasi sicuramente troppo tardi. Glielo diceva il cuore. Mordred si avviò come aveva fatto Roland, ma ancor più adagio. Di tanto in tanto si piegava in due colto dai crampi e la sua forma umana vacillava, il nero sottostante saliva in superficie ad aderirgli alla pelle, gli indumenti pesanti si gonfiavano irrequieti, sospinti dagli altri arti che tentavano di liberarsi. Poi tutto rientrava nella normalità, ubbidendo alla forza della volontà che esercitava digrignando i denti e gemendo per la fatica. Una volta si cacò nei calzoni una pinta di brodaglia marrone puzzolente e un'altra volta riuscì a calarseli in tempo, ma non gli importava né in un senso né nell'altro. Nessuno lo aveva invitato al ballo delle Messi, ah-ha! Invito andato smarrito nella posta, senza dubbio! Dopo, al momento dell'attacco, avrebbe liberato il piccolo Re Rosso. Ma se fosse successo ora, era quasi certo che non sarebbe riuscito a ritrasformarsi nelle sembianze umane. Non ne avrebbe avuto la forza. Il metabolismo più veloce del ragno avrebbe alimentato la malattia come un vento forte trasformava un focherello rasoterra in un roboante incendio distruttore di foreste. Ciò che ora lo stava uccidendo lentamente, lo avrebbe ucciso rapidamente. Così lottò e nel pomeriggio cominciò a sentirsi un po' meglio. Ora le pulsazioni della Torre crescevano velocemente, in potenza e richiamo. Altrettanto lo incalzava la voce del suo Papà Rosso, ammonendolo a mantenersi a distanza d'attacco. Erano ormai settimane che il Vecchio Papà Bianco pistolero non dormiva più di quattro ore per notte, per avvicendarsi nei turni di guardia con la Mamma Cornacchia che ora se ne era andata. Ma Mamma Cornacchia non aveva dovuto nemmeno trainare il carretto, giusto? No, lei se ne stava beata come la Reginetta Stronzetta in sella alla sua cacca a tre ruote, hii! Perciò il Vecchio Papà Bianco pistolero era stanco morto, anche se sospinto e tirato dalle pulsazioni della Torre Nera. Quest'altra notte il Vecchio Papà Bianco avrebbe dovuto affidarsi all'Artista e al Botolo per il primo turno di guardia, o sarebbe stato costretto a rimanere sveglio lui stesso per tutto il tempo. Mordred riteneva di poter sopportare un'altra intera notte di veglia per il semplice fatto che sapeva che non ce ne sarebbe mai più stata un'altra. Sarebbe arrivato di soppiatto, come la notte precedente. Avrebbe spiato il loro campo con gli occhi di vetro del vedi-lontano del vecchio mostro umanoide. E quando li avesse visti dormire tutti, si sarebbe trasformato per l'ultima volta e gli sarebbe piombato addosso. Zampa-zam-zam, arriva gnam-gnam, hii! Chissà, forse il Vecchio Papà Bianco non si sarebbe neppure svegliato, ma Mordred sperava di sì. All'ultimo momento. Quel tanto da rendersi conto che cosa gli stava succedendo. Quel tanto da sapere che suo figlio lo stava consegnando alla morte solo poche ore prima che arrivasse alla sua preziosa Torre Nera. Mordred chiuse i pugni e guardò le dita diventare nere. Gustò il terribile prurito che gli procurò lungo i fianchi il tentativo delle zampe da ragno di emergere e distendersi, sette zampe invece di otto, grazie alla terribile cattivodiosa Mamma Cornacchia che era contemporaneamente incinta e non incinta, che marcisse urlando nello spazio della contezza per l'eternità (o almeno finché l'avesse trovata uno dei Grandi che l'abitavano). Combatté e incoraggiò la metamorfosi con uguale ferocia. Alla fine la combatté e basta e l'impulso a trasformarsi si placò. Mollò una scoreggia di vittoria, ma sebbene fosse prolungata e puzzolente fu anche silenziosa. Aveva il buco del culo ridotto a uno strizzatoio sgangherato in grado di boccheggiare, ma non di fare musica. Le sue dita riprese il loro normale colorito rosato e il prurito che gli correva su e giù per i lati del corpo si dissolse. La testa gli rollava e beccheggiava per la febbre; le braccia magre (poco più di due stecchi) gli dolevano percorse da brividi di freddo. La voce del Papà Rosso era talvolta forte e talvolta debole, ma c'era sempre: Vieni a me. Corri da me. Affretta la tua doppia natura. Come-Commala bravo figlio mio. Abbatteremo la Torre, distruggeremo tutta la luce che c'è e governeremo le tenebre insieme.
Vieni a me.
Vieni.
2
Senza dubbio i tre che restavano (quattro, contando se stesso) erano sfuggiti all'ombrello del ka. Mai dai tempi della recessione del Prim era esistita una creatura come Mordred Deschain, che era in parte umano e in parte composto da quella feconda e potente minestra. Di sicuro una simile creatura non poteva essere destinata dal ka a morire di una morte così prosaica che ora la minacciava: febbre indotta da avvelenamento da cibo.
Roland avrebbe potuto dirgli che mangiare quello che aveva trovato nelle neve intorno alla stalla di Dandelo era stata una pessima idea, anche Robert Browning glielo avrebbe, detto, se è per questo. Malvagio o no, cavallo o no, Lippy (un nome probabilmente derivato da un'altra e meglio conosciuta poesia di Browning intitolata Fra Lippo Lippi), quando Roland aveva posto fine alla sua vita con una pallottola in testa, era a sua volta un animale malato. Ma quando si era imbattuto in quella cosa che quanto meno sembrava un cavallo, Mordred era nella sua forma di ragno e praticamente niente avrebbe potuto impedirgli di mangiarne la carne. Solo quando aveva riassunto la sua fisionomia umana si era domandato con una certa apprensione come potesse esserci stata carne sul ronzino scheletrito di Dandelo e come mai fosse così morbida e calda, così piena di sangue non ancora coagulato. Era rimasta del resto per giorni abbandonata nella bufera. I resti di quella cavalla sarebbero dovuti essere congelati.
Era stato allora che avevano avuto inizio le crisi di vomito. Poi era sopraggiunta la febbre e con essa la lotta per non trasformarsi prima d'essere abbastanza vicino al suo Vecchio Papà Bianco da poterlo smembrare pezzo a pezzo. L'essere la cui venuta era stata profetizzata da migliaia di anni (soprattutto dai Manni e di solito in sussurri timorosi, l'essere che crescendo sarebbe diventato per metà umano e per metà dio, l'essere che avrebbe condotto l'umanità alla sua fine e favorito la restaurazione del Prim... quell'essere si era finalmente materializzato nelle sembianze di un bambino ingenuo e dal cuore cattivo che ora moriva per una scorpacciata di carne di cavallo avvelenata.
Il ka non poteva aver avuto parte in questo.
3
Il giorno in cui Susannah si separò da loro, Roland e i suoi due compagni non percorsero molta strada. Anche se non avesse deciso anzitempo di viaggiare con agio in maniera di arrivare alla Torre al tramonto del giorno successivo, Roland non sarebbe riuscito ad andare lontano. Era scorato, oppresso dalla solitudine e stanco quasi da morirne. Anche Patrick era stanco, ma almeno lui poteva scegliere di farsi trainare, se voleva, e per quasi tutto il giorno fu così, talvolta sonnecchiando, talvolta disegnando, a volte scendendo a camminare un po' prima di rimontare sul Fior II e riposare di nuovo.
Il battito della Torre era forte nella testa e nel cuore di Roland e il suo canto era potente e suadente, ora intonato da mille voci, eppure tutto questo non bastava a sciogliere il piombo che aveva nelle ossa. Poi, mentre cercava un luogo protetto dove sostare e consumare uno spuntino quando ormai era pomeriggio inoltrato, scorse qualcosa che li fece dimenticare per un istante tutta la sua stanchezza e il suo dolore.
Ai bordi della strada cresceva una rosa selvatica, che sembrava la gemella precisa di quella del lotto vacante. Era sbocciata sfidando la stagione, che secondo Roland doveva essere quella dell'arrivo della primavera. Era rosa chiaro all'esterno e all'interno di un rosso ardente; il colore esatto, pensò, del desiderio del cuore. Cadde in ginocchio davanti al fiore, avvicinò l'orecchio alla coppa di corallo e ascoltò.
La rosa cantava.
La spossatezza restò, com'è giusto che sia (da questa parte della tomba, almeno), ma solitudine e tristezza scomparvero, almeno per un po'. Guardò nel cuore della rosa e vide un centro giallo così fulgido da costringerlo a distogliere gli occhi.
Il cancello di Gan, pensò, senza sapere bene che cosa fosse, ma sentendosi convinto lo stesso. Aye, è il cancello di Gan, orsì!
Quella rosa era diversa da quella del lotto vacante per un particolare cruciale: la sensazione di malore e le esili voci di Discordia erano scomparse. Quella rosa era rigogliosa di salute oltre che piena di luce e amore. Essa e tutte le altre... dovevano... dovevano...
Nutrono i Vettori, vero? Con il loro canto e il loro profumo. Come i Vettori alimentano loro. È un campo di forza vivente, un dare e prendere, che si protrae in un vortice dalla Torre. E questa è solo la prima, l'avanguardia più lontana. Nel Can'-Ka No Rey ce ne sono a decine di migliaia come questa.
Lo stupore di quel solo pensiero gli diede le vertigini. Poi gliene sovvenne un altro pieno di collera e paura: l'unico a cui era dato di dominare con lo sguardo quella vasta coltre rossa era pazzo. L'avrebbe fulminato in un lampo, se solo avesse avuto libertà di farlo.
Si sentì toccare con esitazione la spalla. Era Patrick, con Oy accanto. Patrick indicò una zona erbosa di fianco alla rosa, poi mimò uno che mangia. Indicò la rosa e mimò uno che disegna. Roland non aveva molto appetito, ma l'altra idea del ragazzo gli piacque enormemente.
«Sì», disse. «Mangeremo un boccone qui, poi mi concederò magari una breve siesta mentre tu disegni la rosa. Vorresti disegnarla due volte, Patrick?» Gli mostrò la due dita superstiti della mano destra per essere sicuro che Patrick avesse capito.
Il giovane corrugò la fronte e inclinò il capo, ancora confuso. I capelli gli accarezzarono la spalla in un ventaglio luminoso. Roland ricordò come Susannah aveva lavato quei capelli nell'acqua di un torrente nonostante le rumorose proteste di Patrick. Era una cosa che a Roland non sarebbe mai passata per la testa, ma aveva migliorato notevolmente l'aspetto del ragazzo. Guardare quell'ala di capelli pieni di luce gli fece provare una grande nostalgia di Susannah nonostante il canto della rosa. Aveva portato grazia nella sua vita. Era una parola, quella, che era rimasta esclusa dalla sua mente fino a quando l'aveva evocata la sua assenza.
Intanto, lì davanti a lui c'era Patrick, dotato di straordinario talento ma incredibilmente lento nel comprendere.
Roland indicò il suo album e poi la rosa. Patrick annuì: fin lì ci era arrivato. Poi Roland levò due dita della mano sinistra e indicò di nuovo l'album. Finalmente il viso di Patrick si rischiarò. Indicò la rosa, l'album, Roland e infine se stesso.
«Bravo, ragazzo mio», si complimentò Roland. «Un disegno della rosa per te e uno per me. Bella idea, vero?»
Patrick annuì con entusiasmo e si mise subito al lavoro mentre Roland preparava il pasto. Ancora una volta Roland riempì tre piatti e ancora una volta Oy rifiutò la sua razione. Quando guardò negli occhi cerchiati d'oro del bimbolo, Roland vide un vuoto - una desolazione - che lo addolorò nel profondo. E Oy non avrebbe potuto continuare a digiunare; era già fin troppo magro. Consumato dalla strada, avrebbe detto Cuthbert, probabilmente con un sorriso. Bisognoso di sali e sassafrasso caldo. Ma lì il pistolero era a corto di sassafrassi.
«Perché quella faccia?» lo provocò irritato. «Se volevi andare con lei, avresti dovuto farlo quando ancora ti era possibile! Perché ora rivolgi a me quegli occhi tristi da houken?»
Oy lo fissò per un momento ancora e Roland capì di averlo offeso; ridicolo ma vero. Oy si allontanò, con il ricciolo di coda abbassato. Il pistolero desiderò richiamarlo, ma sarebbe stato ancora più ridicolo, no? Che cosa aveva in mente? Di chiedere scusa a un bimbolo?
Era arrabbiato e a disagio con se stesso, sentimenti che non aveva mai patito prima di aver trascinato nella propria vita Eddie, Susannah e Jake, strappandoli dal lato americano. Prima della loro comparsa non provava quasi nulla e sebbene quello fosse un modo un po' arido di vivere, per certi versi non era da disprezzare; si evitava almeno di sprecare tempo nel chiederti se domandare scusa a un animale per averlo trattato in malo modo, per gli dei.
Si accosciò davanti alla rosa per lasciarsi avvolgere dal suadente potere del suo canto e dalla luce - una luce fiorente -, che emetteva dal centro. Poi Patrick chiurlò e lo invitò a gesti a spostarsi per permettergli di vedere la rosa che stava disegnando. Questo contribuì ulteriormente alla sua sensazione di disagio e contrarietà, ma ubbidì lo stesso senza protestare. Del resto era stato lui a chiedere a Patrick di disegnare la rosa. Pensò a come, se Susannah fosse stata lì con lui, i loro occhi si sarebbero incontrati in uno sguardo di divertita intesa, come gli occhi di genitori davanti alle buffonesche esagerazioni di un figlio piccolo. Ma Susannah non c'era; era stata l'ultima e ora se n'era andata anche lei.
«Contento? Ora vedi un chiccolino meglio della tua wunsch-rosen?» lo apostrofò sforzandosi di sembrare comico e riuscendo solo ad apparire rabbioso. Rabbioso e stanco.
Patrick comunque non reagì alla durezza della sua voce. Probabilmente non ha capito niente, pensò Roland. Il ragazzo muto sedeva con le caviglie incrociate e l'album in bilico sulle cosce. Accanto a sé aveva il piatto con i resti del cibo che non aveva finito.
«Non metterci tanto impegno da dimenticarti di mangiare quella roba», lo ammonì Roland. «Dammi retta.» Ottenne in risposta solo un altro cenno distratto e si arrese. «Io chiudo gli occhi, Patrick. Sarà una giornata lunga.» E una notte ancor più lunga, aggiunse tra sé... ma aveva la stessa consolazione di Mordred: sarebbe stata con tutta probabilità l'ultima notte. Non sapeva con certezza che cosa lo attendesse nella Torre Nera in fondo al campo di rose, ma anche se fosse riuscito a liquidare una volta per tutte il Re Rosso, sentiva in ogni caso che quella era la sua ultima marcia. Riteneva che non avrebbe mai abbandonato il Can'-Ka No Rey e andava bene così. Era molto stanco. E, nonostante l'influenza della rosa, triste.
Roland di Gilead si posò un braccio sugli occhi e si addormentò all'istante.
4
Non dormì a lungo prima che Patrick lo svegliasse esuberante di entusiasmo infantile per mostrargli il disegno della rosa. Il sole indicava che erano trascorsi non più di dieci minuti, quindici al massimo.
Come tutti i suoi disegni, anche questo aveva una magia speciale. Patrick aveva reso il fiore quasi come se fosse reale, sebbene avesse a disposizione solo una semplice matita. Roland tuttavia avrebbe preferito un'altra ora di sonno a quell'esercizio di valutazione artistica. Diede comunque la sua approvazione con un cenno affermativo del capo - niente più brontolii e ringhi di fronte a tanta bellezza, aveva giurato a se stesso - e Patrick sorrise, felice anche di quel poco. Girò il foglio e ricominciò a disegnare la rosa su quello successivo. Un disegno per ciascuno, come Roland aveva richiesto.
Il pistolero avrebbe potuto dormire di nuovo, ma a che pro? Di lì a pochi minuti sarebbe stato svegliato di nuovo dal ragazzo muto. Andò invece ad accarezzare il pelo folto del bimbolo, una cosa che faceva di rado.
«Scusa se sono stato burbero con te», gli disse. «Mi concederesti una parolina di perdono?»
Ma Oy tacque.
Quindici minuti dopo Roland caricò nuovamente sul carretto le poche cose che aveva usato, si sputò nei palmi e impugnò nuovamente le stanghe. Il carro era più leggero, adesso, naturalmente, ma a lui sembrava più pesante.
Per forza è più pesante, rifletté. Ci sto trasportando tutte le mie pene. Me le porto dietro dovunque vada, orsì.
Poco dopo sul Fior II salì anche Patrick Danville. Si sistemò un piccolo giaciglio e si addormentò quasi subito. A testa bassa, con l'ombra che gli si allungava sempre più dai tacchi, Roland proseguì arrancando. Oy gli camminava accanto.
Un'altra notte, pensava il pistolero. Un'altra notte ancora, e un giorno dopo l'ultima notte e finalmente sarà fatta. In un modo o nell'altro.
Lasciò che le pulsazioni della Torre e il canto delle sue molte voci gli colmassero la testa e gli alleggerissero il passo... almeno per un po'. Adesso incontrava rose in numero crescente, erano sparse a decine dall'una e dall'altra parte della strada e ravvivavano un paesaggio per il resto brullo. Alcune crescevano addirittura nella strada e Roland si premurava di girarvi intorno. Per quanto stanco, non ne avrebbe mai schiacciata neanche una, mai avrebbe fatto passare una ruota su un solo petalo caduto.
5
Si fermò per la notte quando il sole era ancora ben alto sull'orizzonte, troppo provato per proseguire sebbene ci fossero almeno due ore di luce. In quel punto c'era un torrente in quel momento asciutto, nel cui letto crescevano, rigogliose e disordinate, altre di quelle splendide rose selvatiche. Il loro canto non stemperava la sua stanchezza, ma gli ravvivava un po' lo spirito. Pensava che esercitassero lo stesso effetto anche su Patrick e Oy e ne era contento. Quando si era svegliato, Patrick si era subito guardato intorno con gioiosa aspettativa, poi il suo volto si era rabbuiato e Roland capì che si era reso conto per la seconda volta che Susannah non c'era più. Aveva pianto un po', ma forse il luogo che aveva scelto per quell'ultimo bivacco avrebbe asciugato le sue lacrime.
Sulla sponda c'erano dei pioppi, o almeno così sembravano al pistolero, ma erano morti quando si era asciugato il torrente dal quale bevevano le loro radici. Ora i loro rami erano un intrico di spini inerti protesi verso il cielo. Nei loro profili riconosceva dappertutto il numero diciannove, scritto sia nei caratteri del mondo di Susannah, sia in quelli del suo. In un punto i rami sembravano chiaramente disposti a formare la parola CHASSIT sullo sfondo del cielo che si andava oscurando.
Prima di allestire il fuoco e cucinare qualcosa per una cena precoce - per quella sera si sarebbero accontentati dei viveri in scatola della dispensa di Dandelo - Roland scese nel letto asciutto del torrente ad annusare le rose e ascoltando il loro canto passeggiò lentamente tra gli alberi morti. Profumo e melodia lo corroboravano.
Quando si sentì un po' meglio, raccolse legna sotto gli alberi (per sicurezza spezzò anche alcuni dei rami più bassi, lasciando spunzoni aguzzi che gli ricordarono un po' le matite di Patrick) e costruì una piccola catasta. Poi appiccò il fuoco, recitando senza nemmeno accorgersene l'antica formula propiziatoria: «Brilla scintilla, dov'è la mia mamma? Mi stenderò? Riposerò? Dona al mio campo una fiamma».
Mentre attendeva che la legna prendesse e quindi morisse in un letto di tizzoni rossi, estrasse di tasca l'orologio che gli era stato regalato a New York. Il giorno prima si era fermato, sebbene gli avessero assicurato che la batteria che conteneva sarebbe durata cent'anni.
Ora, mentre il pomeriggio si stemperava nella sera, le lancette avevano preso a muoversi lentamente all'indietro.
Lo contemplò per qualche minuto, affascinato, poi chiuse il coperchio e osservò i sigul che vi erano incisi: chiave, rosa e Torre. Nelle finestrelle che salivano a spirale si erano accesi deboli e misteriosi lumi azzurri.
Non sapevano di questo fenomeno, meditò mentre riponeva con cura l'orologio nel taschino di sinistra dopo aver controllato (come faceva sempre) che non ci fossero strappi attraverso i quali potesse scivolare fuori. Poi cucinò. Lui e Patrick mangiarono a sazietà.
Oy non toccò cibo.
6
Dopo la notte che aveva trascorso confabulando con l'uomo in nero - la notte durante la quale Walter gli aveva letto un tetro futuro da un mazzo di carte sicuramente truccato - le dodici ore di buio sulla riva del torrente asciutto furono le più lunghe nella vita di Roland. Lo sfinimento gli pesò sul corpo ancor più concreto e scuro, finché gli parve di essere sepolto sotto un mantello di pietre. Davanti ai suoi occhi appesantiti marciarono antichi volti e antichi luoghi: Susan che cavalcava a perdifiato sul Drop con i biondi capelli al vento; Cuthbert che scendeva correndo da Jericho Hill quasi nella stessa maniera, gridando e ridendo; Alain Johns che alzava il bicchiere in un brindisi; Eddie e Jake che lottavano nell'erba strillando, mentre Oy danzava intorno a loro abbaiando.
A un tiro di sasso, lì intorno c'era Mordred, ma il sonno era un'insidia costante. Ogni volta che sentiva che si stava assopendo, Roland si destava di scatto e scrutava il buio con occhi ferini, sapendo di essersi affacciato troppo oltre il ciglio dell'incoscienza. Ogni volta si aspettava di vedere il ragno con la macchia rossa sul ventre che gli piombava addosso e non vedeva altro che la luce arancione degli hob danzare in lontananza. Non sentiva altro che il sospiro del vento.
Ma è là che aspetta. Prende tempo. E se mi addormenterò... quando mi addormenterò ...ci sarà addosso.
Verso le tre del mattino si destò sulla spinta della sola forza di volontà da un assopimento che era arrivato ai limiti della voragine del sonno. Si guardò intorno frenetico, strofinandosi gli occhi con tanta violenza da farsi esplodere nella testa una girandola di mirks e fouders e sankofiti. Le fiamme del fuoco erano quasi spente. Patrick era disteso a qualche metro da lui, vicino al tronco nodoso di un pioppo. Visto da dove si trovava Roland, era solo una massa informe coperta da alcune pelli. Di Oy non c'era traccia. Roland chiamò il bimbolo e non ottenne risposta. Stava per alzarsi quando scorse il vecchio amico di Jake appena oltre il tratto rischiarato dalle ultime fiammelle del fuoco; o vide del bimbolo quanto meno lo scintillio degli occhi cerchiati d'oro. Quegli occhi lo fissarono per un momento, poi scomparvero, probabilmente perché il bimbolo aveva appoggiato il muso alle zampe anteriori.
È stanco anche lui, rifletté Roland, e ne ha ben donde.
La domanda di che cosa sarebbe stato di Oy in un futuro ormai prossimo cercò di affiorare alla superficie della menta stanca e travagliata del pistolero, che subito s'affrettò a respingerla. Si alzò (ottenebrato dallo sfinimento, la sua mano scivolò all'anca che per tanto tempo lo aveva tormentato, come se aspettasse di trovare l'antico dolore), andò da Patrick e lo svegliò scuotendolo. Gli ci volle un po', ma finalmente il ragazzo aprì gli occhi. Roland non si ritenne soddisfatto. Afferrò Patrick per le spalle e lo issò a sedere. Quando il ragazzo cercò di ributtarsi giù, Roland lo scosse di nuovo. Con forza. Lui guardò stordito il pistolero, senza capire.
«Aiutami a fare il fuoco, Patrick.»
Contava che servisse a rischiarargli un po' le idee. E, quando le fiamme avessero ripreso vigore a dovere, gli avrebbe assegnato un breve turno di guardia. L'idea non lo convinceva più che tanto, sapeva benissimo quanto fosse pericoloso affidarsi a Patrick, ma ancora più rischioso sarebbe stato sforzarsi di sostenere lui stesso la veglia per il resto della nottata. Aveva bisogno di dormire. Un'ora o due sarebbero bastate e non sarebbero state un sacrificio eccessivo per Patrick.
Patrick si dimostrò abbastanza volenteroso da raccogliere un po' di legna da buttare sul fuoco, sebbene si muovesse come un bougie, un cadavere rianimato. E quando le fiamme furono vivaci, tornò ad accasciarsi al suo posto con le braccia penzoloni tra le ginocchia ossute, di nuovo più addormentato che sveglio. Roland pensò che potesse avere bisogno di un paio di sberle per resuscitare... e più tardi rimpianse, amaramente, di non averlo fatto.
«Ascoltami, Patrick.» Lo scosse con energia per le spalle facendogli svolazzare i capelli, alcune ciocche dei quali gli ricaddero sugli occhi. Roland gliele scostò. «Ho bisogno che resti sveglio a montare di guardia. Solo per un'ora... solo finché... guarda, Patrick! Alza gli occhi! Per gli dei, non t'azzardare, a riaddormentarti! Vedi là? La stella più luminosa tra tutte quelle più vicine a noi!»
Gli stava indicando la Vecchia Madre e Patrick annuì prontamente. Ora nei suoi occhi c'era un lume di interesse che il pistolero considerò incoraggiante. Era il suo sguardo di «ho voglia di disegnare». E se si fosse messo a disegnare la Vecchia Madre che brillava nell'ampia forcella di due rami del più imponente fra i pioppi morti, aumentavano di gran lunga le probabilità che rimanesse sveglio. Magari fino all'alba, se si fosse fatto prendere bene.
«Qui, Patrick.» Fece sedere il ragazzo contro la base dell'albero. Era nodoso abbastanza - sperava Roland - da offrirgli un appoggio troppo scomodo perché potesse dormire. In ogni suo movimento aveva la sensazione di muoversi sott'acqua. Oh, com'era stanco. Stanchissimo. «Vedi ancora la stella?»
Patrick annuì con vigore. Sembrava che si fosse ripreso del tutto dalla sonnolenza e il pistolero ringraziò gli dei per la loro magnanimità.
«Quando finisce dietro quel ramo grosso e non la vedi più o non riesci più a disegnarla senza alzarti... chiamami. Svegliami, costi quel che costi. Hai capito?»
Patrick annuì subito, ma Roland lo conosceva ormai abbastanza bene da sapere che quel gesto significava poco o niente. Era il suo modo di manifestare la sua disponibilità. Se gli avesse chiesto se nove più nove facevano diciannove, avrebbe annuito con lo stesso immediato entusiasmo.
«Quando non vedi più la stella da dove sei seduto...» Ora gli sembrava che le sue parole giungessero da molto lontano. Poteva solo sperare che Patrick avesse capito. Il ragazzo senza lingua aveva comunque tirato fuori il suo album e una matita temperata di fresco.
È tutta la protezione che ho, borbottò la mente di Roland mentre tornava ciondolante al suo mucchietto di pelli tra il fuoco e Fior II. Non si addormenterà mentre disegna, no?
Lo sperava, ma non poteva sicuramente darlo per certo. E non aveva molto importanza, perché lui, Roland di Gilead, avrebbe dormito in ogni caso. Aveva fatto tutto il possibile e sarebbe dovuto bastare.
«Un'ora», mormorò e fu un filo di voce la sua, appena percettibile persino alle proprie orecchie. «Svegliami tra un'ora... quando la stella... quando la Vecchia Madre finirà dietro...»
Ma non poté portare a termine il pensiero. Già non sapeva neppure che cosa stesse dicendo. Lo sfinimento lo afferrò e lo trascinò rapidamente con sé in un sonno senza sogni.
7
Mordred vide tutto attraverso gli occhi di vetro del vedi-lontano. La febbre era aumentata e nella sua fiamma ardente la sua stanchezza era almeno temporaneamente svanita. Spiò con avido interesse il pistolero che svegliava il giovane mutante - l'Artista - e lo obbligava con prepotenza ad aiutarlo a riattizzare il fuoco. Lo spiò incitando mentalmente il mutante a finire la sua corvè e tornarsene a dormire prima che il pistolero potesse impedirglielo. Questo purtroppo non avvenne. Erano accampati vicino a un gruppo di pioppi morti e Roland condusse l'Artista all'albero più grande. Lì indicò il cielo. Era tempestato di stelle, ma secondo Mordred il Vecchio Papà Bianco pistolero stava indicando la Vecchia Madre, perché era la stella più luminosa. Finalmente l'Artista, che non dava l'impressione di essere molto per la quale (almeno al piano superiore) mostrò d'aver capito. Tirò fuori il suo album e già aveva cominciato a disegnare mentre il Vecchio Papà Bianco se ne andava un po' barcollando e continuando a borbottare istruzioni e ordini ai quali l'Artista non stava chiaramente prestando la minima attenzione. Il Vecchio Papà Bianco crollò così repentinamente che per un momento Mordred temette che il brandello di carne secca che quel figlio di puttana aveva per cuore avesse finalmente cessato di battere. Poi Roland si mosse nell'erba cambiando posizione e Mordred, sdraiato su un cucuzzolo una novantina di metri a ovest del letto asciutto del torrente, tornò a respirare più regolarmente. E per quanto esausto fosse il Vecchio Papà Bianco pistolero, l'addestramento e il venerando lignaggio che risaliva fino allo stesso Eld sarebbero bastati a svegliarlo con la pistola in pugno nell'istante in cui l'Artista avesse lanciato uno di quei suoi versi inarticolati ma diabolicamente potenti. A quel punto fu colto dai crampi, i più lancinanti da quando erano cominciati. Si raggomitolò su se stesso, lottando per mantenere la sua forma umana, lottando per non gridare, lottando per non morire. Sentì provenire da sotto un altro di quei prolungati borbottii come di liquido che bolle e si sentì scorrere per la gamba un altro fiotto di quella brodaglia marrone e grumosa. Ma il suo olfatto soprannaturale colse un odore nuovo mescolato a quello degli escrementi, questa volta: odore di sangue. Temette che il dolore non passasse più, che continuasse ad affondarglisi nel ventre fino a straziargli le carni, ma piano piano cominciò a recedere. Si guardò la mano sinistra e non si sorprese del tutto di vedere che le dita si erano annerite e fuse assieme. Non sarebbero più tornate alla loro forma umana, quelle dita; prevedeva che gli fosse rimasta a disposizione una sola metamorfosi. Mordred si asciugò la fronte con la destra e si portò di nuovo agli occhi il bin-docolo, pregando il Papà Rosso d'aver fatto addormentare quello stupido mutante. Niente da fare, era sveglio. Era appoggiato al tronco del pioppo a guardare tra i rami e a disegnare la Vecchia Madre. Quello fu il momento in cui Mordred Deschain fu più vicino alla disperazione, come Roland, era convinto che il disegno fosse l'unica attività che avrebbe potuto impedire all'idiota di addormentarsi. Allora perché non consegnarsi alla metamorfosi quando era ancora nel pieno di quell'ultima recrudescenza febbrile con cui nutrirsi di energia distruttiva? Perché non correre il rischio? Era Roland che voleva, in fondo, non il ragazzo; nella sua forma di ragno poteva sicuramente piombare sul pistolero con la fulmineità necessaria, imprigionarlo tra le zampe e portarselo alle fauci fameliche. Forse il Vecchio Papà Bianco sarebbe riuscito a far partire un colpo, mettiamo pure due, ma Mordred riteneva di poterli incassare, se i pezzetti di piombo volanti non avessero trovato il nodulo bianco sul suo dorso, il duplice cervello. E quando l'avrò tra le fauci, non lo mollerò più finché non lo avrò risucchiato tutto, finché di lui non ci sarà che una mummia polverosa come quell'altra, Mia. Si rilassò, pronto a lasciarsi prendere dalla mutazione e fu allora che un'altra voce gli parlò dal centro della mente. Era la voce del suo Papà Rosso, quello imprigionato sul balcone della Torre Nera, quello che aveva bisogno che Mordred vivesse, almeno per un giorno ancora, perché era lui che doveva liberarlo.
Aspetta ancora un po', gli consigliò la voce. Aspetta ancora un po'. Potrai avere un altro asso nella manica. Aspetta... aspetta solo un po'...
Mordred aspettò. E dopo un momento o due, sentì che la pulsazione della Torre Nera stava cambiando.
8
Anche Patrick avvertì il cambiamento. La pulsazione diventò suadente. E conteneva della parole, adesso, parole che smussarono il suo fervore creativo. Tracciò un'altra linea, sostò, poi posò la matita e si mise a contemplare la Vecchia Madre, che gli sembrava pulsare allo stesso ritmo delle parole che sentiva nella testa, parole che Roland avrebbe riconosciuto. Solo che questa volta a cantarle era una voce di vecchio, tremolante ma dolce:
«Bimbo caro, bimbo bello,
Va alla nanna un altro giorno.
Sogni dolci, sogni d'oro,
Sogna frutti nel cestello.
Bimbo caro, bel bambino,
Porta tanti frutti grassi
Chussit chissit chassit!
Da riempire il tuo cestino!»
La testa di Patrick barcollò. I suoi occhi si chiusero... si aprirono... si chiusero lentamente di nuovo.
Da riempire il mio cestino, pensò, e dormì nella luce del fuoco.
9
Ora, mio buon figliolo, sussurrò la voce fredda al centro del cervello di Mordred, così torrido che si andava liquefacendo. Ora. Vai e fai che non si alzi mai dal suo sonno. Uccidilo tra le rose e governeremo insieme.
Mordred uscì allo scoperto e il binocolo gli rotolò da una mano che non era più una mano. Mentre si trasformava, fu invaso da una sensazione di potere enorme e fortificante. Ancora un minuto ed era fatta. Dormivano tutti e due e in nessun modo avrebbe potuto fallire.
Si avventò sul campo e sui due viaggiatori dormienti, incubo nero a sette zampe, aprendo e chiudendo la bocca.
10
Lontano, lontanissimo, a mille miglia, Roland sentì un abbaiare concitato, urgente, furioso e selvaggio. La sua mente esausta cercò di sottrarsi a quel fastidio, cancellarlo e scendere più in profondità. Poi ci fu un terribile urlo di dolore che lo svegliò in un lampo. Conosceva quella voce, per quanto distorta.
«Oy!» chiamò balzando in piedi. «Oy, dove sei? A me! A...»
Eccolo. Si contorceva nella morsa del ragno. Erano tutti e due ben visibili nella luce del fuoco. Dietro di loro, seduto per terra con la schiena contro il pioppo, Patrick guardava intontito attraverso una cortina di capelli che presto, ora che Susannah non c'era più, sarebbero stati di nuovo sporchi. Il bimbolo si dibatteva come una furia, morsicando l'aria nel tentativo di trovare il corpo del suo aggressore e spargendo intorno a sé schiuma di saliva, mentre Mordred gli ripiegava la schiena come la natura non aveva mai previsto che potesse flettersi.
Se non fosse scappato nell'erba alta, rifletté Roland, ora tra le zampe di Mordred ci sarei io.
Finalmente Oy affondò i denti in una delle zampe del ragno. Nella luce del fuoco Roland vide le fossette create dai muscoli mascellari del bimbolo che convogliava nel morso tutte le sue forze. Il ragno lanciò un grido stridulo e la sua presa si allentò. In quel momento Oy avrebbe potuto liberarsi, se così avesse scelto. Ma invece di spiccare un balzo e scappare nell'unico attimo che gli fu offerto prima che Mordred serrasse di nuovo la sua morsa, Oy ne approfittò per stendere il lungo collo e affondare le zanne nel punto in cui una delle zampe si articolava al corpo rigonfio dell'aggressore. Ce la mise tutta, finché dai lati del muso non sprizzò un liquido di un rosso così cupo da apparire nero. Nella luce delle fiamme si riempì di scintille arancione. Questa volta il grido di Mordred fu ancora più terribile. Aveva escluso Oy dai suoi calcoli e ora ne pagava il prezzo. Nel bagliore del fuoco le due forme avvinghiate sembravano lottatori in un incubo.
Patrick aveva cominciato a chiurlare di terrore.
Alla fine quell'inutile figlio di puttana si è addormentato lo stesso, pensò amaramente Roland. Ma chi lo aveva messo di guardia?
«Mettilo giù, Mordred!» gridò. «Mettilo giù e ti lascerò vivere un altro giorno! Lo giuro sul nome di mio padre!»
Occhi rossi, traboccanti di follia e perfidia, lo scrutarono da sopra il corpo contorto di Oy. Più su, vicino alla sommità della schiena incurvata del ragno, c'erano minuscoli occhi blu, poco più di due punticini. Fissavano il pistolero con un odio fin troppo umano.
Sono i miei occhi, pensò sgomento Roland e subito dopo udì uno scricchiolio spaventoso. Era la spina dorsale di Oy, che nonostante la ferita mortale non perse la presa sull'articolazione della zampa di Mordred, sebbene le setole dure come acciaio gli avessero devastato il muso esponendo i denti aguzzi che talvolta con affettuosa delicatezza si erano chiusi sul polso di Jake per tirarlo verso qualcosa che voleva fargli vedere. Eik! esclamava. Eik-Eik!
La mano destra di Roland scese alla fondina e non trovò nulla. Fu solo in quel momento, ore dopo il suo addio, che si rese conto che Susannah aveva portato con sé nell'altro mondo una delle sue pistole. Bene, pensò. Bene. Se saranno davvero le tenebre, quelle che troverà, ne avrà cinque per gli esseri che le abitano e una per sé. Bene.
Ma questa sua considerazione fu anche appannata, formulata di riflesso. Estrasse l'altra rivoltella mentre Mordred si raccoglieva sulle zampe posteriori e usava quella che gli era rimasta al centro per avvinghiarla al corpo di Oy e strapparsi l'animale ancora ringhiante dall'articolazione lacerata e sanguinante. Il ragno roteò il corpicino peloso in una terribile spirale. Per un momento nascose il raggio luminoso della Vecchia Madre. Poi scagliò Oy lontano da sé e Roland visse un momento di déjà-vu, accorgendosi di aver già visto anche quella scena, nella Sfera del Mago. Oy compì un arco nel buio screziato dai riflessi del fuoco e restò impalato su uno dei rami di pioppo che il pistolero aveva spezzato con le proprie mani quando era andato a far legna. Lanciò un orribile grido di dolore, un grido di morte, e finalmente rimase appeso al ramo su cui era conficcato, inerte, poco sopra la testa di Patrick.
Mordred sferrò il suo attacco con decisione, ma la sua avanzata fu lenta, disordinata; aveva avuto una zampa strappata solo pochi minuti dopo la nascita e ora un'altra gli pendeva spezzata e inutile dal corpo, trascinando nell'erba le chele che alla sua estremità si contraeva spasmodica. Mai gli occhi di Roland erano stati tanto limpidi, mai il gelo che lo avvolgeva in quei momenti più totale. Vide il nodulo bianco e gli occhi blu da bombardiere che erano i suoi occhi. Vide il volto del suo unico figlio fissarlo da sopra la schiena dell'abominevole creatura e un attimo dopo il suo primo proiettile lo disintegrò in uno spruzzo di sangue. Il ragno si rizzò e le sue zampe si scagliarono contro il nero del cielo punteggiato di stelle. Altri due proiettili di Roland gli entrarono nell'addome esposto e gli uscirono da dietro, trascinando fiotti di liquido scuro. Il ragno sbandò lateralmente, forse con l'intenzione di darsi alla fuga, ma le altre zampe non lo ressero. Mordred Deschain cadde nel fuoco, sollevando un ventaglio di scintille rosse e arancione. Si contorse nei tizzoni e, mentre le setole che aveva sul ventre cominciavano a bruciare, Roland, con un sogghigno truce sulle labbra, sparò di nuovo. Ferito a morte, il ragno rotolò fuori delle braci e giacque rovesciato sul terreno. Le zampe superstiti si attorcigliarono in un nodo per qualche istante e finalmente si districarono spalancandosi. Una di esse ricadde nel fuoco e cominciò a bruciare. L'odore era atroce. Roland si avvicinò con l'intenzione di schiacciare sotto i piedi i piccoli focolai che i tizzoni sparsi avevano appiccato nell'erba, e in quel mentre nella sua testa rimbombò un urlo di indignato furore.
Mio figlio! Il mio unico figlio! L'hai assassinato!
«Era anche figlio mio», disse Roland contemplando il mostro che si andava carbonizzando. Sapeva guardare la verità in faccia.
Vieni allora! Vieni, assassino e guarda la tua Torre, ma sappi una cosa: morirai di vecchiaia ai bordi del Can'-Ka prima che tu possa anche solo sfiorarne la porta! Mai ti lascerò passare! Dovrà estinguersi lo spazio di contezza prima che io lasci passare te! Assassino! Tu che hai assassinato tua madre, hai assassinato i tuoi amici... aye, tutti i tuoi amici, giacché Susannah giace morta con la gola squarciata dall'altra parte della porta che tu gli hai fatto attraversare - e hai ora assassinato il tuo stesso figlio!
«Chi lo ha mandato a me?» chiese Roland alla voce che udiva nella propria testa. «Chi ha mandato quel bambino - perché c'è un bambino dentro quella pelle nera - alla sua morte, boggart rosso?»
Non ci fu risposta a quelle parole, così Roland ripose la pistola e spense le fiammelle prima che potessero dilagare. Ripensò a quello che la voce gli aveva detto di Susannah e decise di non crederci. Era possibile che fosse morta, aye, ma riteneva che il Padre Rosso di Mordred non sapesse della sua sorte più di quanto ne sapeva lui stesso.
Il pistolero congedò quel pensiero e andò all'albero dov'era rimasto appeso l'ultimo membro del suo ka-tet, impalato... ma ancora vivo. Gli occhi cerchiati d'oro fissarono Roland che poteva essere quasi di stanco divertimento.
«Oy», mormorò Roland e tese la mano. Sapeva che avrebbe potuto mordergliela, ma non gli importava affatto. In parte - e non una piccola parte - lo desiderava. «Oy, noi tutti ti diciamo grazie. Io ti dico grazie, Oy.»
Il bimbolo non lo morsicò. Pronunciò una sola parola. «Olan», disse. Poi sospirò, leccò una sola volta la mano del pistolero, reclinò la testa e morì.
11
Mentre la luce dell'alba si distendeva in quella brillante del mattino, Patrick si avvicinò titubante al pistolero, seduto nel letto asciutto del torrente, in mezzo alle rose, con in grembo, come una stola, il corpo di Oy. Il giovane emise un gorgoglio da volatile, sommesso e interrogativo.
«Non ora, Patrick», gli rispose Roland accarezzando la pelliccia di Oy. Era folta ma liscia al tatto. Trovava quasi impossibile credere che la creatura sotto di essa non ci fosse più, sebbene sentisse i muscoli irrigiditi e i grumi del sangue coagulato. Pettinò questi ultimi con le dita. «Non ora. Abbiamo l'intera giornata per arrivarci, non c'è fretta.»
No, non ce n'era. Nessun motivo per non indugiare nel lutto per l'ultimo dei suoi morti. Non c'era stata ombra di incertezza nella voce del vecchio re quando gli aveva giurato che l'avrebbe lasciato morire di vecchiaia piuttosto che permettergli di toccare la porta alla base della Torre. Ci sarebbero andati, questo sì, e Roland avrebbe studiato il terreno, ma già ora sapeva che il suo stratagemma di arrivare furtivamente da dietro nascondendosi al vecchio mostro e girare intorno alla Torre non era affatto uno stratagemma, ma l'illusione di uno sciocco. Non c'era stata incertezza nella voce di quel vecchio malvagio; nessuna incertezza nemmeno celata tra le righe.
E in quel momento non aveva alcuna importanza. Lì c'era un'altra delle sue vittime e se doveva trovare una consolazione, era solo nel fatto che Oy sarebbe stato l'ultimo. Ora era solo con Patrick ed era presumibile che Patrick fosse immune al terribile germe di cui il pistolero era portatore, visto che non era mai stato parte del suo ka-tet.
Io uccido solo la mia famiglia, rifletté Roland accarezzando il bimbolo morto.
A farlo soffrire era sopratutto il ricordo dell'asprezza con cui gli aveva parlato il giorno prima. Se volevi andare con lei, avresti dovuto farlo quando ancora ti era possibile!
Era rimasto perché sapeva che Roland avrebbe avuto bisogno di lui? Che quando la spintarella fosse diventata uno spintone (un'espressione di Eddie, naturalmente), Patrick non sarebbe stato all'altezza? Perché ora rivolgi a me quegli occhi tristi da houken?
Perché sapeva che sarebbe stato il suo ultimo giorno e che la sua morte sarebbe stata crudele?
«Io credo che tu sapessi già tutto», mormorò Roland e chiuse gli occhi per percepire meglio la sensazione del pelo sotto la mani. «Mi dispiace tanto di averti parlato in quel modo. Rinuncerei alle dita della mano sinistra ancora intera se potessi rimangiarmele. Oh sì, tutte le dita, e dico il vero.»
Ma anche lì, come nel Mondo Cardine, il tempo scorreva in un senso solo. Quel che era fatto, era fatto. Non c'era modo di disfarlo.
Aveva creduto che della sua collera non fosse rimasto più niente, aveva pensato di averla consumata fino all'ultimo residuo, ma quando avvertì il formicolio che gli si diffondeva dalla testa ai piedi e capì che cosa significava, il cuore gli si colmò di rinnovato furore. E sentì il gelo reimpossessarsi delle sue mani, di cui la stanchezza non aveva neppure scalfito la grande abilità.
Patrick lo stava ritraendo! Seduto sotto il pioppo, del tutto insensibile al tatto che proprio lì era morta pochi istanti prima una coraggiosa piccola creatura che valeva dieci volte lui, anzi, cento! Ed era morta per entrambi loro.
È fatto così, lo soccorse la voce pacata e dolce di Susannah. È tutto quello che ha, tutto il resto gli è stato portato via, il mondo in cui è nato, sua madre, la lingua, l'intelletto, grande o piccolo che fosse. Sta soffrendo anche lui, Roland. È anche impaurito. Questo è l'unico modo che ha per difendersi.
Tutto vero, senz'altro. Ma la verità di quelle parole riuscì solo ad alimentare la sua furia. Posò la rivoltella orfana (luccicò abbandonata tra due di quelle rose armoniose) perché averla a portata di mano era troppo pericoloso nello stato d'animo in cui si trovava. Poi si alzò in piedi, con l'intenzione di scaricare su Patrick la più mortificante delle sfuriate, se non altro per puro sfogo personale. Già sentiva le prime parole: Godi tanto a disegnare quelli che hanno salvato la tua vita indegna, razza di stupido? Ti fa gioire il cuore?
Stava per aprire la bocca quando Patrick posò la matita e prese invece il suo nuovo giocattolo. La gomma era ormai per metà consumata e non ce n'erano altre; assieme alla pistola di Roland, Susannah aveva portato con sé le tutte le altre gommine rosa, forse solo perché aveva in tasca il barattolo di vetro che le conteneva e la sua mente era rivolta a questioni assai più importanti. Patrick avvicinò la gomma al disegno, poi alzò lo sguardo - forse per riflettere su quale fosse la sua vera intenzione - e vide il pistolero in piedi nel letto del fiume che lo guardava accigliato. Capì subito che Roland era in collera, anche se probabilmente non aveva la più pallida idea di quale ne fosse il motivo, e il suo volto si accartocciò in un maschera di paura e infelicità. In quel momento Roland lo vide come doveva averlo visto spesso Dandelo e a quel pensiero la sua furia crollò. Non avrebbe terrorizzato Patrick. Fosse stato solo per rispetto nei confronti di Susannah, non avrebbe terrorizzato Patrick.
E scoprì che era anche per rispetto verso se stesso.
Perché non ucciderlo, allora? domandò l'infida voce che gli pulsava nella testa. Uccidilo e poni fine alle sue sofferenze, se ti intenerisce tanto. Potrà entrare nella radura con il bimbolo. A preparare un posto anche per te, pistolero.
Roland scosse la testa e cercò di sorridere. «Nay, Patrick, figlio di Sonia», disse (perché così lo aveva chiamato Bill il robot). «Nay, ho avuto torto... di nuovo... e non ti rimprovererò...»
Andò verso di lui. Patrick si raggomitolò con un sorriso servile da cane che fece infuriare nuovamente Roland. Ma questa volta gli fu facile soffocare la nuova emozione. Anche Patrick aveva amato Oy e quello era il solo modo che aveva per sopportare il proprio cordoglio.
Questioni comunque che il quel momento erano distanti dalla mente di Roland.
Dolcemente, gli sfilò la piccola gomma dalle dita. Patrick lo guardò confuso, poi allungò la mano vuota chiedendogli con gli occhi di restituirgli quello splendido (e utile) giocattolo nuovo.
«Nay», disse Roland con tutta la benevolenza di cui era capace. «Te la sei cavata per gli dei solo sanno quanti anni senza nemmeno sapere che cose del genere esistessero; potrai farne a meno ancora per un giorno», credo. C'è qualcosa che dovrai ritrarre... e poi detrarre. Mi capisci, Patrick?»
Patrick non capiva, ma quando la gomma scomparve nella stessa tasca in cui Roland conservava l'orologio, sembrò dimenticarsene e tornò tranquillo al suo disegno.
«Metti via anche quello per ora», lo invitò Roland.
Patrick ubbidì senza obiezioni. Indicò prima il carretto, poi la Via della Torre ed emise il suo chiurlo interrogativo.
«Aye», rispose Roland. «Ma prima dobbiamo vedere che cosa aveva con sé Mordred, potremmo trovare qualcosa di utile. E dobbiamo seppellire il nostro amico. Mi aiuterai a sotterrare Oy, Patrick?»
Patrick fu solerte e la sepoltura non richiese molto tempo per una salma assai più piccola del cuore che l'aveva animata. A metà mattina avevano già cominciato a coprire le ultime poche miglia della lunga strada che portava alla Torre Nera.
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Il Re Rosso e la Torre Nera
1
Stretta la foglia, lunga la via, e lunga anche la storia, non direste anche voi? Il viaggio è stato lungo e il costo è stato alto... ma non è mai dato che una grande impresa si compia a poco prezzo. Una storia lunga, come una torre alta, dev'essere costruita una pietra alla volta. Ora però, in prossimità della fine, dovete volgere lo sguardo a quei due viaggiatori che vengono verso di noi con grande cautela. L'uomo più anziano, quello con la faccia abbronzate e rugosa e la pistola al fianco, sta trainando il carretto che chiamano Fior II. Quello più giovane, con il grande album da disegno serrato sotto il braccio a farlo sembrare uno studente d'altri tempi, gli cammina accanto. Stanno salendo un dolce pendio non molto diverso da centinaia di altri che lo hanno affrontato in precedenza. La strada che percorrono, invasa dall'erba, è bordeggiata da entrambi i lati da resti di mura di pietra; tra i cumuli di sassi crescono rose selvatiche in amabile abbondanza. Dietro questi muri diroccati, sul vasto terreno punteggiato di arbusti, sorgono strani edifici di pietra. Alcuni sembrano rovine di castelli; altri ricordano obelischi egizi; alcuni sono chiaramente cerchi parlanti di quelli dove si evocano i demoni, un complesso di rovine antiche e gigantesche somiglia a Stonehenge. Impossibile non pensare a Druidi incappucciati raccolti al centro del grande cerchio, intenti forse a vaticini; ma i custodi di questi monumenti, questi precursori del Sommo Monumento, sono tutti scomparsi. Solo piccole mandrie di bannock pascolano dove un tempo si raccoglievano in adorazione.
Pazienza. Non sono rovine antiche quelle che siamo venuti a guardare sul finire del nostro lungo viaggio, bensì il vecchio pistolero che traina il carretto. Sostiamo in cima al pendio e attendiamo che arrivi fino a noi. Viene. E viene. Implacabile come sempre, un uomo che sempre impara la lingua del posto (almeno in parte) e i costumi locali. È ancora di quelli che raddrizzerebbero i quadri in una sconosciuta camera d'albergo. Molto di lui è cambiato, ma non questo. Arriva alla sommità, così vicino a noi ora che ci giunge l'odore acre del suo sudore. Alza la testa in un rapido sguardo automatico che lancia prima davanti a sé e poi dall'una e dall'altra parte. Assicurati sempre un vantaggio strategico, era la regola di Cort e l'ultimo dei suoi allievi non l'ha ancora scordata. Guarda su senza interesse, guarda giù... e si ferma. Dopo aver osservato per un momento la pavimentazione della strada, dissestata e infestata dalle erbacce, alza di nuovo gli occhi, questa volta più lentamente. Molto più lentamente. Quasi temesse ciò che crede di aver visto.
Ed è qui che noi dobbiamo unirci a lui, affondare in lui, sebbene in che modo assicurare a noi stessi il medesimo vantaggio strategico del cuore di Roland in un momento come questo, quando l'univoco scopo di una vita intera appare finalmente ai suoi occhi, è più di quanto possa esprimere il vostro umilissimo narratore. Certi momenti trascendono l'immaginazione.
2
Giungendo in cima alla salita Roland alzò rapidamente lo sguardo, non perché si attendesse pericoli, ma per un'abitudine profondamente radicata. Assicurati sempre un vantaggio strategico, raccomandava loro Cort, glielo inculcava nella mente fin da quando erano ancora poco più che bimbini. Si girò a guardare di nuovo la strada - diventava sempre più difficile evitare le rose senza schiacciarne qualcuna, eppure fino a quel momento ci era sempre riuscito - poi, tardivamente, si rese conto di ciò che aveva visto.
Quello che hai creduto di aver visto, disse a se stesso, continuando a contemplare la strada. È probabilmente uno di quegli strani ruderi che abbiamo incontrato fin da quando ci siamo messi in marcia.
Ma sapeva che non era così. Quello che aveva scorto non era su un lato o l'altro della Via della Torre; era in fondo alla strada.
Alzò di nuovo la testa, sentì scricchiolare il collo come i cardini di una porta vecchia, e là, ancora a miglia di distanza, ma ormai visibile all'orizzonte, reale come le rose, c'era il culmine della Torre Nera. L'immagine che gli si era presentata in mille sogni era ora davanti a suoi occhi viventi. Una settantina di metri più avanti la strada saliva di nuovo in cima a un dosso più alto, come un antico cerchio parlante soffocato da edere e vincibosco da una parte e un bosco di alberi di ferro dall'altro. A media distanza, al centro di quel modesto rilievo, una forma nera si ergeva a ostruire una minuscola porzione di cielo azzurro.
Patrick si fermò di fianco a Roland e mandò uno di quei suoi versi da volatile.
«La vedi?» chiese Roland. La sua voce risuonò polverosa, increspata di meraviglia. Poi, prima che Patrick potesse rispondere, gli indicò quello che portava appeso al collo. Alla fine il binocolo era stato il solo oggetto trovato nello scarso bagaglio di Mordred che aveva ritenuto di portar via.
«Dammelo, Pat.»
Patrick s'affrettò a ubbidire. Roland si portò lo strumento agli occhi, regolò di una minima frazione la ghiera della messa a fuoco e fissò, improvvisamente senza fiato, l'immagine della cima della Torre che riempiva all'improvviso la sua visuale, quasi che avesse potuto toccarla allungando la mano. Quanto di essa spuntava dall'orizzonte? Quanta parte di essa stava vedendo? Sei, sette metri? O quindici o più? Non ne aveva idea, ma contò almeno tre file di finestrelle disposte in una spirale ascendente e vide il bovindo sulla sommità che, con i suoi riflessi policromi nel sole primaverile e il nucleo centrale nero, sembrava ricambiare il suo sguardo nelle lenti del binocolo come l'Occhio di Contezza.
Patrick gloglottò e con la mano chiese che gli fosse restituito il binocolo. Voleva guardare anche lui e Roland lo accontentò senza fiatare. Si sentiva la testa leggera, non del tutto presente. Ricordò di aver provato la medesima sensazione nelle settimane precedenti il duello con Cort, come se si fosse trasformato in un sogno o in un raggio di luna. Aveva presagito l'avvento di qualcosa, di un cambiamento epocale, ed era così che si sentiva ora.
È laggiù. Laggiù c'è il mio destino, alla fine della strada della mia vita. Eppure il mio cuore batte ancora (un po' più veloce di prima, questo è vero), il mio sangue ancora scorre, e sono sicuro che quando mi chinerò per afferrare di nuovo le stanghe di questo maledetto carretto la mia schiena protesterà e magari mi scapperà un po' d'aria da dietro. Nulla è cambiato.
Attese la delusione preannunciata da quel pensiero. Il disappunto. Non venne. Avvertì invece uno strano fulgore montante che sembrava avesse inizio nella sua mente e da lì si diffondesse nei muscoli. Per la prima volta da quando si era rimesso in cammino quella mattina, svanì il lui il ricordo di Oy e Susannah. Si sentì libero.
Patrick abbassò il binocolo. Quando si girò verso Roland, era visibilmente emozionato. Indicò la struttura nera che spuntava dietro il dosso e garrì.
«Sì», disse Roland. Un certo giorno, in un certo mondo, una certa versione di te la dipingerà e accanto a essa ci sarà Llamrei, il cavallo di Arthur Eld. Lo so perché l'ho visto. Per il momento è solo la nostra destinazione.»
Patrick chiurlò, poi s'imbronciò di nuovo. Si portò le mani alle tempie e ondeggiò la testa come in preda a una terribile emicrania.
«Sì», disse Roland. «Ho paura anch'io. Ma non possiamo farci niente. Ci devo andare. Vuoi restare qui, Patrick? Vuoi aspettarmi qui? Se preferisci così, te lo consento.»
Patrick scosse subito la testa e, nel caso Roland non avesse inteso, gli afferrò il braccio e glielo strinse con forza. La sua mano destra, quella con cui disegnava, era d'acciaio.
Roland annuì. Tentò persino di sorridere. «Sì, va bene. Allora resta con me finché vuoi. Fino a quando capirai che alla fine dovrò andare da solo.»
3
Ora, ogni volta che risalivano da un avvallamento e giungevano in vetta al dosso successivo, era come se la Torre Nera avesse spiccato un balzo andando loro incontro. Diventavano visibili altre file delle finestre che risalivano sulla sua ampia circonferenza. Ora Roland scorgeva due pali metallici in cima alla Torre. Dalla punta dei pali scaturivano, disegnando una gigantesca X nel cielo, le nuvole che scorrevano lungo i Sentieri dei due Vettori superstiti. Anche le voci crescevano d'intensità e ora Roland sentiva che cantavano i nomi del mondo. Di tutti i mondi. Non aveva idea di come potesse esserne così sicuro, ma non aveva dubbi. Quella leggerezza dello spirito continuava a colmarlo. Finalmente, mentre arrivavano sul culmine di un dosso all'altezza del quale, alla loro sinistra che corrispondeva al nord, erano disposti giganti di pietra schierati in una colonna marciante, con il volto truce dipinto di una sostanza color rosso sangue, Roland ordinò a Patrick di risalire sul carretto. Patrick si stupì. La serie di cinguettii con cui reagì poteva forse significare: Ma non sei stanco?
«Sì, ma anche così ho bisogno di un'ancora. Altrimenti potrei mettermi a correre verso quella Torre, quando so che non devo. E se non mi scoppiasse prima il cuore per lo sforzo, sarebbe il Re Rosso a farmi saltar via la testa con uno dei suoi giocattoli. Sali, Patrick.»
Patrick montò sul carro. Viaggiò proteso in avanti con il binocolo schiacciato sugli occhi.
4
Tre ore dopo giunsero ai piedi di un pendio molto più ripido. Il cuore diceva a Roland che era l'ultima salita. Dall'altra c'era il Can'-Ka No Rey. In cima, a destra, vedeva un cumulo di massi che una volta erano accatastati in una piccola piramide. Quel che ne restava si ergeva per una decina di metri. Tutt'attorno le rose crescevano in una disordinata ghirlanda vermiglia. Prendendo la piramide diroccata come punto di riferimento, Roland cominciò a salire lentamente, trainando il carretto. Mentre saliva, riapparve ancora una volta la sezione superiore della Torre Nera. A ogni suo passo ne emergeva un tratto nuovo. Ora vedeva i balconi con le loro ringhiere di media altezza. Non occorreva più il binocolo in quell'aria di sovrannaturale limpidezza. Calcolò la distanza rimanente in non più di cinque miglia. Forse solo tre. Davanti ai suoi occhi non del tutto increduli spuntavano i livelli della Torre, uno dopo l'altro.
Poco prima della sommità di quell'ultimo dosso, quando il cumulo di rocce era a una ventina di passi, Roland si fermò, si chinò e posò per l'ultima volta per terra le stanghe del carretto. Tutti i nervi del suo corpo lanciavano segnali di pericolo.
«Patrick? Salta giù.»
Patrick ubbidì, guardò ansioso Roland e crocchiò.
Il pistolero scosse la testa. «Non so ancora dirti perché. Solo che è pericoloso.» Le voci che cantavano in coro erano innumerevoli, ma l'aria intorno a loro era immobile. Non un uccello solcava il cielo o gorgheggiava in lontananza. Le ultime mandrie di bannock raminghi erano lontane alle loro spalle. Si alzò una brezza che increspò l'erba. Le rose dondolarono le loro corolle selvatiche.
Ripresero il cammino insieme e Roland sentì un lieve tocco sulla mano destra amputata. Guardò Patrick. Il giovane mutante lo fissava ansioso, cercando di sorridere. Roland gli prese la mano e tenendolo così arrivò in cima alla salita.
Sotto di loro si apriva una grande coltre di rosso, fino all'orizzonte in tutte le direzioni. La strada l'attraversava, una polverosa linea bianca perfettamente dritta e larga forse quattro metri. In mezzo al campo di rose si ergeva la Torre, del color grigio scuro della fuliggine così come l'aveva vista nei suoi sogni. Le finestre scintillavano nel sole. Laggiù la strada si biforcava a disegnare un perfetto cerchio bianco intorno alla base della Torre per proseguire dall'altra parte, in una direzione che secondo Roland era ora l'est preciso e non più sud-est. Un'altra strada era disposta a angoli retti rispetto la Via della Torre, in direzione nord e sud, se non sbagliava nel ritenere che i punti cardinali fossero tornati nella loro posizione originale. Vista da sopra, la Torre Nera sarebbe apparsa come il centro del reticolo di un mirino inondato di sangue.
«È...» cominciò Roland e in quel momento la brezza portò loro uno strepito possente e distorto dalla follia, che neppure la notevole distanza riuscì a indebolire. Viene sul Vettore, pensò Roland. Ed è portato dalle rose.
«PISTOLERO!» urlò il Re Rosso. «ORA MORIRAI!»
Cominciò un sibilo, dapprima sottile, poi crescente, che tagliò il canto congiunto della Torre e delle rose come la lama più affilata su una ruota tempestata di diamanti. Patrick era paralizzato nella contemplazione della Torre e, non fosse stato per i riflessi fulminei di Roland, sarebbe stato strappato via dalle sue stesse scarpe. Il pistolero, che lo teneva per mano, lo trascinò in un attimo al riparo dell'ammasso di pietre che avevano formato la piramide. Ce ne erano altre nascoste negli alti steli di romice e stramonio; inciamparono e finirono lunghi e distesi. Roland si ritrovò con uno spigolo conficcato dolorosamente tra le costole.
Il fischio continuò a crescere trasformandosi in uno stridio insopportabile. Roland vide sfrecciare nell'aria una macchia dorata... una boccia. Colpì il carretto che saltò in aria, spargendo dappertutto i loro bagagli. Piovvero pezzi sulla strada, i barattoli ricaddero rimbalzando rumorosamente, alcuni di essi sfondati.
Allora risuonò stridula una risata che fece vibrare i denti a Roland. Accanto a lui Patrick si tappò le orecchie. La follia in quel riso era quasi insostenibile.
«VIENI FUORI!» lo provocò la voce ridente da mentecatto. «VIENI FUORI A GIOCARE, ROLAND! VIENI A ME! VIENI ALLA TUA TORRE, DOPO TUTTI QUESTI LUNGHI ANNI NON VUOI VENIRE?»
Patrick lo guardò con gli occhi traboccanti di disperazione e spavento. Si teneva contro il petto l'album da disegno come fosse uno scudo.
Roland spiò con circospezione da dietro la piramide e laggiù, su un balcone al secondo livello dalla base della Torre, vide esattamente quello che aveva visto nel quadro di sai Sayre: una macchiolina rossa e tre macchioline bianche; una faccia e due mani alzate. Solo che quello non era un dipinto e una delle mani si mosse all'improvviso e lanciò. Partì un altro di quei sibili luciferini. Roland si ritrasse dietro il cumulo della piramide. Ci fu una pausa che sembrò interminabile, poi la boccia colpì l'altro lato del cumulo di pietre ed esplose. Il contraccolpo li spedì a terra bocconi. Patrick urlò di terrore. Da una parte e dall'altra volarono pezzi di pietra. Alcuni di essi rotolarono giù per la strada, ma Roland non ne vide alcuno colpire una singola rosa.
Il ragazzo si rialzò sulla ginocchia e se la sarebbe data a gambe, probabilmente giù per la strada, se Roland non lo avesse ghermito per il colletto della giacca di pelle costringendolo ad abbassarsi di nuovo.
«Qui siamo abbastanza al sicuro», gli mormorò. «Guarda.» Infilò un braccio in un varco che si era aperto nei resti della piramide e batté l'interno con le nocche, producendo un sordo tintinnio. Rivolse quindi a Patrick un sorriso forzato. «Acciaio! Yar! Può scagliare contro questo rudere anche dieci di quelle sue palle volanti e non riuscirà mai ad abbatterlo. Tutto quello che potrà fare sarà sgretolare i blocchi di pietra e denudare quello che c'è sotto. Capisci? E io non credo che sprecherà le sue munizioni. Non può averne più che tante.»
Prima che Patrick rispondesse, Roland guardò di nuovo oltre il bordo frastagliato del cumulo di pietre. Si portò le mani ai lati della bocca e gridò: «PROVA ANCORA, SAI! NOI SIAMO ANCORA QUI, MA IL TUO PROSSIMO LANCIO POTREBBE ESSERE PIÙ FORTUNATO!»
Ci fu un momento di silenzio, poi un grido pazzesco.
«IIIIIIIIIIII! NON T'AZZARDARE A SBEFFEGGIARMI! NON T'AZZARDARE! IIIIIIIIIIII!»
Un altro di quei sibili montanti. Roland abbrancò Patrick e gli si buttò sopra, dietro la piramide ma non contro di essa. Temeva che le vibrazioni al momento dell'impatto provocassero loro ferite di contraccolpo o lesioni agli organi interni.
Questa volta però la boccia non colpì la piramide. Passò oltre, sfrecciando sopra la strada. Roland rotolò via da Patrick disteso sulla schiena. I suoi occhi inquadrarono la saetta dorata e fissarono il punto in cui invertì la direzione per piombare sul loro bersaglio. La disintegrò come un piattello. Ci fu un lampo accecante, poi più nulla.
«OH MAMMA MIA, È VOLATA VIA!» gridò Roland sforzandosi di mettere nella voce la giusta razione di scherno compiaciuto. Non era facile quando si urlava a pieni polmoni.
Un altro strillo folle in risposta: «IIIIIIII!» c'era da meravigliarsi che strepiti come quelli non spaccassero la testa al Re Rosso come una zucca. Roland inserì una cartuccia al posto di quella consumata - aveva intenzione di tenere la rivoltella piena il più a lungo possibile - e questa volta il fischio fu duplice. Patrick gemette, rotolò sul ventre e affondò la faccia nell'erba cosparsa di pietre coprendosi la testa con le mani. Seduto con la schiena contro la piramide di pietre e acciaio, con la lunga canna della sei colpi contro una coscia, Roland si rilassò e attese. Contemporaneamente fece confluire tutta la sua forza di volontà su un punto solo. I suoi occhi avrebbero voluto lacrimare in risposta a quel sibilo che si avvicinava diventando sempre più straziante, ma non poteva permetterglielo. Se mai in tutta la sua vita aveva avuto bisogno di quella vista straordinariamente acuta per cui era famoso, quel momento era giunto.
I suoi occhi celesti erano ancora limpidi quando le bocce lo sorvolarono passando sopra la strada. Al momento di invertire la direzione, una girò a destra e una a sinistra. Effettuarono una manovra evasiva, zigzagando prima da una parte poi dall'altra. Del tutto inutile. Roland attese, seduto con le gambe distese davanti a sé e i vecchi stivali sbrindellati inclinati in una V scomposta, con il cuore che gli batteva lento e regolare nel petto, gli occhi pieni dei più infinitesimali particolari del mondo (avesse visto meglio di così, in quell'ultimo giorno, avrebbe visto il vento). Poi alzò di scatto la pistola, cancellò dall'aria entrambe le bocce e stava già ricaricando mentre ancora l'immagine residua delle due esplosioni gli pulsava davanti agli occhi in sintonia con il cuore.
Si sporse dall'angolo della piramide, raccolse in binocolo, lo appoggiò a uno spigolo adatto e cercò il suo nemico attraverso le lenti. Il Re Rosso quasi gli saltò addosso e una volta tanto in vita sua Roland vide precisamente ciò che aveva immaginato: un vecchio con un naso enorme, ingobbito e ceroso; labbra rosse che sbocciavano nella neve di una barba rigogliosa; capelli canuti che gli scendevano sulla schiena fin quasi alle natiche smunte. Lievemente arrossato dall'emozione, era proteso dal balcone verso i viandanti. Indossava una tunica rosso brillante, su cui erano disseminati simboli di folgore e cabala. Susannah, Eddie e Jake lo avrebbero scambiato per Babbo Natale. Agli occhi di Roland appariva esattamente per ciò che era: l'Inferno, incarnato.
«QUANTO SEI LENTO!» gridò il pistolero in quel tono di divertito dileggio. «PROVA, MAGARI LANCIANDONE TRE IN UNA VOLTA!»
Guardare attraverso il binocolo era come guardare in una clessidra magica messa per lungo. Roland guardò il Grande Re Rosso saltare sul balcone, agitando le mani all'altezza del volto in un modo che era quasi comico. Gli parve di scorgere una cassa ai piedi del vecchio, ma non ne era del tutto sicuro, perché era quasi del tutto nascosta dalla fascia ornamentale che cingeva la base del balcone ne reggeva la ringhiera.
Dev'essere la sua scorta di munizioni, pensò. Non può essere altre. Quante ne può contenere una cassa di quelle dimensioni? Venti? Cinquanta? Non aveva importanza. A meno che il Re Rosso fosse in grado di scagliarne venti per volta, confidava di poterle fare esplodere tutte in aria. Del resto quello era lo scopo per il quale era stato addestrato.
Sfortunatamente lo sapeva anche il Re Rosso.
La cosa sul balcone lanciò un altro grido spaventoso (Patrick s'infilò le dita sporche nelle orecchie sporche) e fece per abbassarsi a raccogliere altre munizioni. Ma cambiò idea. Roland lo guardò avvicinarsi alla ringhiera... e quindi guardare direttamente nei suoi occhi. Fu uno sguardo rosso di fuoco. Roland abbassò precipitosamente il binocolo per non restare ammaliato.
Gli giunse la voce del Re. «ASPETTA ALLORA, RESTA LÌ. E MEDITA SU QUELLO CHE OTTERRESTI, ROLAND! PENSA A QUANTO CI SEI VICINO... E ASCOLTA! ASCOLTA LA CANZONE CHE CANTA IL TUO AMORE!»
Poi tacque. Niente più sibili; niente più fischi; niente più bocce. Ciò che Roland udì invece fu il sospiro del vento... e quello il Re voleva che udisse.
Il richiamo della Torre.
Vieni, Roland, cantarono le voci. Venivano dalle rose del Can'-Ka No Rey, venivano dai Vettori che sopra di lui si andavano ricaricando di energia, venivano soprattutto dalla Torre stessa, quella che aveva cercato per tutta la vita, quella che ora era a pochi passi... quella che, ora che ci era così vicino, gli veniva negata. Se avesse proseguito, sarebbe stato ucciso nel tratto che avrebbe dovuto compiere allo scoperto. Ma il richiamo era come un amo conficcato nella sua mente, lo stava traendo. Il Re Rosso sapeva che avrebbe avuto effetto solo se avesse aspettato. E con il passare del tempo giunse a quella conclusione anche Roland. Perché le voci non erano costanti. Al livello attuale era in grado di resistere. Lo stava facendo, del resto. Con il trascorrere del pomeriggio, il livello del richiamo sarebbe aumentato. Cominciò a capire - con orrore crescente - perché nei suoi sogni e nelle sue fantasticherie si era sempre visto giungere alla Torre Nera al tramonto, quando la luce nel quadrante occidentale sembrava riflettere il campo di rose trasformando il mondo intero in un secchio di sangue sostenuto da un singolo sostegno, nero come la mezzanotte contro il cielo ardente.
Si era visto arrivare al tramonto perché era a quell'ora che il richiamo sempre più forte della Torre avrebbe finalmente avuto la meglio sulla sua volontà. Sarebbe andato. Nulla al mondo avrebbe più potuto fermarlo.
Vieni... vieni... diventò VIENI... VIENI... e poi VIENI! VIENI! Ne era dolorosamente rintronato. E assieme al dolore cresceva dentro di lui il desiderio. Ripetutamente si sorprese a mettersi in ginocchio e ogni volta si costrinse a tornare a sedere con la schiena contro la piramide.
Patrick lo guardava con paura crescente. In parte era del tutto immune a quel richiamo, Roland se ne rendeva conto, ma sapeva che cosa stava avvenendo.
5
Erano assediati forse da un'ora quando il Re tentò con un altro doppio lancio di bocce. Questa volta sfrecciarono dall'una e dall'altra parte della piramide e tornarono indietro quasi immediatamente, in formazione perfetta, ma distanziate di sei o sette metri. Roland distrusse quella di destra e con una flessione repentina del polso cancellò dal cielo anche quella di sinistra. L'esplosione della seconda avvenne tanto vicino che fu investito al volto da una ventata d'aria calda, ma per fortuna non ci fu una micidiale mitraglia di cocci: a quanto sembrava, quando scoppiavano si dissolvevano completamente.
«PROVA ANCORA!» gridò. Ormai aveva la gola infiammata, ma sapeva che le sue parole giungevano comunque a destinazione: in quel luogo l'aria era fatta per quel genere di comunicazioni. E sapeva che ciascuna di esse era come la punta di un pugnale che tormentava le carni del vecchio pazzo. Però aveva anche lui i suoi problemi. Il richiamo della Torre cresceva costantemente.
«VIENI, PISTOLERO!» lo circuiva la voce del pazzo. «MAGARI TI LASCIO VENIRE, PERCHÉ NO? POTREMMO ALMENO TENERE CONCILIABOLO SULL'ARGOMENTO, NO?»
Con orrore Roland credette di rilevare una certa sincerità in quella voce.
Sì, pensò. E farci anche una tazza di caffè. Forse anche una bella frittura.
Frugò in tasca, trovò l'orologio, lo estrasse e lo aprì. Le lancette giravano velocemente all'indietro. Si appoggiò alla piramide chiuse gli occhi, ma era anche peggio. Il richiamo della Torre
(vieni, vieni Roland, pistolero, Commala-come-come, il tuo viaggio è finito)
era più potente, più insistente che mai. Li riaprì e guardò l'inesorabile cielo blu e le nuvole che lo attraversavano incolonnate arrivando fino alla Torre in fondo al campo di rose.
E la tortura continuò.
6
Resistette un'ora ancora mentre si allungavano le ombre degli arbusti e delle rose che crescevano vicino al cumulo di sassi, sperando oltre ogni speranza che gli sovvenisse qualcosa, che gli balenasse un'idea brillante con cui evitare di consegnare la propria vita e il proprio destino alle mani di quel ragazzo tanto provvisto di talento quanto sprovvisto di intelletto. Ma quando il sole cominciò a scivolare nella volta occidentale del cielo e il blu sopra di lui cominciò a scurire, capì che il tempo volgeva al termine. Le lancette dell'orologio viaggiavano sempre più veloci al contrario. Presto il loro movimento sarebbe diventato vorticoso. E allora sarebbe andato. Bocce o no (e chissà che cos'altro aveva in serbo per lui quel folle), sarebbe andato. Avrebbe corso, a zigzag, si sarebbe buttato per terra e sarebbe avanzato strisciando se necessario, ma a dispetto di qualsiasi stratagemma, sapeva che sarebbe stato fortunato ad arrivare anche solo a metà della strada che lo separava dalla Torre Nera prima di essere annientato.
Sarebbe morto tra le rose.
«Patrick», chiamò. La sua voce suonò roca e cupa.
Patrick alzò su di lui occhi colmi di disperata trepidazione. Roland gli guardò le mani - sporche, graffiate, ma a loro modo dotate di un talento incredibile, pari alle sue - e si arrese. Rifletté di aver resistito così a lungo solo per orgoglio; il suo proposito era stato quello di uccidere il Re Rosso, non di limitarsi a spedirlo in qualche zona neutra. E naturalmente non c'era garanzia che Patrick potesse fare al Re quello che già aveva fatto con l'ulcera sul viso di Susannah. Ma di lì a poco la trazione della Torre sarebbe diventata irresistibile e tutte le sue altre alternative erano state spese.
«Scambiamoci di posto, Patrick.»
Il ragazzo fece come gli aveva chiesto, costretto a scavalcarlo. Si trovò così sullo spigolo della piramide dalla parte della strada.
«Guarda con in vedi-lontano. Appoggialo su quella sporgenza... sì, così... ora guarda.»
Patrick guardò e rimase in contemplazione per un tempo che a Roland sembrò molto lungo. Intanto la voce della Torre cantava e gorgheggiava e blandiva. Finalmente Patrick staccò gli occhi dal binocolo.
«Ora prendi il tuo album, Patrick. Disegna quell'uomo.» Non che fosse un uomo, ma così appariva.
Patrick tuttavia continuò a guardare Roland, immobile, morsicandosi il labbro inferiore. Finalmente prese la testa del pistolero tra le mani e l'attirò a sé finché furono fronte a fronte.
Molto difficile, bisbigliò una voce nella mente di Roland. Non era affatto la voce di un ragazzo, bensì quella di un uomo adulto. Un uomo potente. Non è del tutto presente. Traspare. Sfuma.
Dove aveva già sentito quelle parole?
Non era tempo di pensarci ora.
«Mi stai dicendo che non puoi?» chiese Roland inserendo (a fatica) una nota di delusa incredulità nella propria voce. «Che tu non puoi? Che Patrick non può? Che l'Artista non può?»
Gli occhi di Patrick trasmutarono. Per un momento Roland scorse in essi l'espressione che ne sarebbe divenuta caratteristica se quel ragazzo fosse cresciuto per diventare adulto... e i quadri nell'ufficio di Sayre dicevano che così sarebbe stato, almeno per un periodo di tempo, in un mondo o in un altro. Adulto comunque abbastanza da dipingere ciò che aveva visto quel giorno. Era un'espressione che sarebbe diventata di autorevolezza, se fosse maturato in lui anche un tanto di saggezza pari al suo talento; ora era solo superbia. Era l'espressione di un ragazzo che sa di essere più veloce della folgore celeste, di essere il migliore, e non gl'importa di sapere altro. Roland conosceva quello sguardo... non lo aveva forse visto riflesso in cento specchi e laghi e laghetti quando lui stesso aveva avuto l'età che aveva ora Patrick Danville?
Posso, gli rispose la voce nella mente. Dico solo che non sarà facile. Avrò bisogno della gomma.
Roland scosse subito la testa in segno negativo. La mano che aveva nella tasca si chiuse su quel che restava della piccola gomma rosa e la strinse con forza.
«No», disse. «Dovrai ritrarre senza rete, Patrick. Ogni linea giusta al primo colpo. La cancellatura è per dopo.»
Per un momento l'espressione arrogante vacillò, ma fu solo un momento. Quando riapparve, era accompagnata da qualcosa che riempì il pistolero di piacere e anche di non poco sollievo. Era un'emozione tumultuosa. Era l'espressione che si accende nel puro spirito creativo quando, dopo anni di sonnacchioso girovagare senza meta, viene finalmente sfidato a realizzare qualcosa che metta alla prova le sue capacità, le spinga fino ai loro limiti. Forse anche oltre.
Patrick rotolò nuovamente per terra per raggiungere il binocolo, che aveva lasciato appoggiato contro la piramide sotto la sporgenza. Guardò a lungo mentre le voci cantavano nella testa di Roland il loro richiamo sempre più irresistibile.
Finalmente rotolò via, prese l'album e cominciò a tracciare il disegno più importante della sua vita.
7
Fu un lavoro lento, se confrontato con il metodo usuale di Patrick, rapidi tratti di grafite che in pochi minuti completavano un disegno di straordinario realismo. Ripetutamente Roland dovette trattenersi dal gridare al ragazzo: Muoviti! Per l'amor di tutti gli dei, muoviti! Non vedi come mi sto straziando?
Ma Patrick non vedeva e ne sarebbe rimasto comunque insensibile. Era totalmente assorto dal suo lavoro, succubo della sua elementare bramosia, e lo interrompeva solo per tornare al binocolo di tanto in tanto e soffermarsi in un altro prolungato studio del suo soggetto paludato in rosso. Ogni tanto inclinava la matita per una piccola ombreggiatura, che uniformava sfregandovi sopra il pollice. Ogni tanto rovesciava gli occhi all'indietro mostrando al mondo solo il bianco scintillante. Era come se evocasse una versione del Re Rosso che vedeva brillare nel cervello. E come avrebbe potuto Roland sostenere che così non fosse?
Non m'importa che cos'è. Che finisca prima che la pazzia mi spinga a correre verso quella che così argutamente il Vecchio Re Rosso ha definito «il mio amore».
Trascorse così una mezz'ora lunga tre giorni. A un certo punto il Re Rosso chiamò di nuovo Roland, più persuasivo che mai, chiedendogli se non volesse infine recarsi alla Torre a confabulare. Forse, disse, se Roland lo avesse liberato dalla prigionia su quel balcone, avrebbero potuto seppellire insieme l'ascia di guerra e salire insieme in cima alla Torre in un comune spirito di amicizia. Non era impossibile. Una pioggia forte è artefice di improbabili compagni di letto alla locanda; Roland non aveva mai sentito questo detto?
Il pistolero lo conosceva bene. Sapeva anche che l'offerta del Re Rosso era essenzialmente una versione rinnovata dell'ingannevole proposta precedente, vestita questa volta di giacca e cravatta. Ma Roland percepì anche preoccupazione nella voce del vecchio mostro. Non sprecò energie a rispondergli.
Resosi conto che le sue blandizie erano fallite, il Re Rosso scagliò un'altra boccia. Volò così alta al di sopra della piramide che si vide passare solo una scintilla, poi piombò su di loro con lo stridio di una bomba. Roland la distrusse con un solo colpo e ricaricò subito la pistola dalla sua abbondante scorta di cartucce. Sperava in verità che il Re gli lanciasse altre granate volanti, perché in quel modo distoglieva almeno temporaneamente la mente dal terribile richiamo della Torre.
Mi stava aspettando, pensò con sgomento. È per questo che è così difficile resistere, credo; il fatto che chiami me in particolare. Non Roland, bensì l'intera stirpe dell'Eld... e di quella stirpe io sono il solo rimasto.
8
Finalmente, quando il sole calante cominciò a tingersi delle prime pennellate di arancione e Roland era allo stremo della sua capacità di sopportazione, Patrick posò la matita e offrì l'album a Roland con un'espressione corrucciata. Roland ne fu spaventato. Nel repertorio del giovane mutante, quell'espressione era un'assoluta novità. Non c'era più traccia della precedente arroganza.
Prese comunque l'album e per un momento fu così meravigliato da ciò che vide, che dovette distogliere lo sguardo, quasi che gli occhi della figura disegnata da Patrick potessero ammaliarlo; potessero addirittura indurlo a portarsi la pistola alla tempia e farsi saltare le cervella dolenti. Tanto era perfetto il ritratto. Il volto bramoso e famelico era lungo, le guance e la fronte segnate da solchi così marcati da sembrare senza fondo. La barba era folta come schiuma e le labbra carnose e crudeli. Quella era la bocca di un uomo che, se lo prendeva l'estro, trasformava un bacio in un morso, ed era un estro che si faceva vivo spesso.
«COSA CREDI DI FARE?» strillò la voce del pazzo. «NON TI SERVIRÀ A NIENTE, QUALUNQUE COSA SIA! IO TENGO LA TORRE... IIIIIIII! IO SONO COME IL CANE A GUARDIA DELL'UVA, ROLAND! È MIA ANCHE SE NON POSSO SALIRE IN CIMA! E TU VERRAI! IIIIIIII! DICO IL VERO! PRIMA CHE L'OMBRA DELLA TORRE GIUNGA AL TUO RIDICOLO NASCONDIGLIO, VERRAI! IIIIIIII! IIIIIIII! IIIIIIIIII!»
Patrick si coprì le orecchie con una smorfia. Ora che aveva finito di disegnare, sentiva di nuovo quegli strepiti spaventosi.
Che quel ritratto fosse il capolavoro assoluto di tutta l'opera di Patrick, Roland non aveva il minimo dubbio. Chiamato alla sfida, il giovane non si era limitato a superare se stesso; era esploso da sé sulla spinta della sua genialità più pura. Il realismo del suo ritratto era magnetico. Il vedi-lontano non lo può spiegare, non del tutto, rifletté Roland. È come se avesse un terzo occhio che guarda dalla finestra della sua immaginazione e vede ogni cosa. È quell'occhio che usa quando rovescia all'indietro gli altri due. Possedere una capacità così squisita... e saperla esprimere con uno strumento così umile come una matita! Ah dei!
Si aspettò quasi di vedere le pulsazioni cominciare a battere nell'incavo delle tempie del vecchio, dove, con pochi tratti di leggerezza estrema, il ragazzo aveva reso i viticci di vene sottilissime. All'angolo delle labbra piene e sensuali, si scorgeva l'ammiccare di un dente
(una zanna)
solitario e aguzzo, e sembrava che quelle labbra dovessero animarsi e dischiudersi davanti ai suoi occhi mostrando tutti gli altri: quella sola macchiolina di bianco (che in fondo non era che una minuscola zona di carta immacolata) induceva la fantasia a vedere il resto delle fauci e a sentire persino il tanfo di carne digerita che avrebbe accompagnato ogni esalazione di fiato. Patrick aveva catturato alla perfezione un ciuffo di peli arricciato in un narice del Re e una cicatrice sottile intessuta come un filo nel sopracciglio destro. Era un'opera stupefacente, meglio persino del ritratto che il mutante aveva fatto di Susannah. E se Patrick aveva potuto cancellare l'ulcera da quel volto, avrebbe potuto cancellare il Re Rosso per intero da quest'altro disegno, lasciando solo la ringhiera del balcone e la porta chiusa alle sue spalle. Era impossibile non aspettarsi che il Re Rosso del disegno traesse il primo respiro e cominciasse a muoversi, dunque era fatta! Ora...
Invece no. Non andava bene e non bastava il desiderio a modificare la dolorosa realtà. Nemmeno la necessità avrebbe potuto porvi rimedio.
Sono gli occhi, pensò Roland. Erano grandi e terribili, gli occhi di un drago con sembianze umane. Erano disegnati benissimo, ma non andavano bene. Un senso di certezza disperato e angosciante lo fece rabbrividire dalla testa ai piedi, un tremito così forte da fargli battere i denti. Non sono come.,.
Patrick gli prese il braccio. Il pistolero era così concentrato sul disegno che per poco non gridò. Rialzò la testa di scatto. Patrick gli rivolse un cenno, poi si toccò gli angoli degli occhi.
Sì. Gli occhi. Lo so! Ma che cosa c'è che non va?
Patrick si stava toccando ancora i propri. Sopra di loro uno stormo di ruggi attraversò un cielo che presto sarebbe stato più viola che blu. Riempirono l'aria dei gridi rochi che ne avevano ispirato il nome. Lo stormo volava verso la Torre Nera; Roland si alzò per seguirli, perché non avessero loro ciò che a lui era negato.
Patrick lo trattenne per la giacca di pelle e lo tirò indietro. Scosse con violenza la testa e questa volta indicò la strada.
«HO VISTO, ROLAND!» strillò il Re. «TU PENSI CHE QUELLO CHE VALE PER GLI UCCELLI VALGA ANCHE PER TE, VERO? IIIIIIII! ED È VERO! VERO COME LO ZUCCHERO, VERO COME IL SALE, VERO COME I RUBINI NEL FORZIERE DI RE DANGO! IIIIIIII, AH! AVREI POTUTO AVERTI QUI ANCHE ORA, MA PERCHÉ DARMI PENA? PREFERISCO VEDERTI VENIRE PISCIANDOTI ADDOSSO E TREMANDO E INCAPACE DI TRATTENERTI!»
E così verrò, pensò Roland. Non potrò evitarlo. Saprò resistere per dieci minuti ancora, forse venti, ma alla fine...
Patrick interruppe i suoi pensieri, indicando di nuovo la strada. Quella da cui erano venuti.
Roland rifiutò con un cenno stanco. «Anche se potessi oppormi a quel richiamo, e in realtà non posso, è già tanto che riesca a rimanere qui, tornare indietro non servirebbe. Quando non fossimo più protetti, userebbe le altri armi che ha in serbo. Qualcosa ha, ne sono certo. E qualunque cosa sia, è probabile che le pallottole della mia rivoltella non possano fermarlo.»
Patrick scosse di nuovo la testa con forza, facendo volare di qua e di là i lunghi capelli. La stretta sul braccio di Roland s'intensificò finché le unghie del ragazzo si conficcarono nelle carni del pistolero passando attraverso tre pelli. I suoi occhi, sempre dolci e di solito imbambolati, guardavano ora Roland con un'espressione vicina al furore. Indicò di nuovo la strada con la mano libera, tre gesti in rapida successione con l'indice sudicio. Ma non era la strada, che gli stava indicando.
Patrick indicava le rose.
«Che cosa vuoi?» chiese Roland. «Patrick che cosa vuoi dirmi delle rose?»
Questa volta indicò prima le rose, poi gli occhi del ritratto.
E questa volta Roland capì.
9
Patrick non voleva andare a prenderle. Quando Roland lo esortò, il ragazzo scosse subito la testa, facendo svolazzare di nuovo i capelli. Con gli occhi sgranati, produsse tra i denti socchiusi un sibilo che era una più che discreta imitazione di una boccia in volo.
«Distruggerò qualsiasi cosa ti scagli addosso», lo rassicurò Roland. «Mi hai visto. Se ci fosse una rosa abbastanza vicina perché possa raccoglierla io lo farei, ma non ce ne sono. Dunque devi essere tu ad andare a prenderla e sarò io a coprirti.
Ma Patrick tornò a rifugiarsi contro l'ammasso disordinato delle pietre della piramide. Non ci sarebbe andato. La sua paura non era forse grande quanto il suo talento, ma ci andava vicino. Roland calcolò la distanza dalla rosa, più prossima a loro. Era allo scoperto, ma forse non troppo. Si guardò la mano destra, quella mutilata con cui avrebbe dovuto coglierla, e si domandò quanto sarebbe stato difficile. Purtroppo non sapeva darsi una risposta. Quelle non erano rose comuni. Per quel che ne sapeva, gli spini che crescevano sugli steli verdi potevano contenere un veleno che lo avrebbero fatto stramazzare paralizzato nell'erba alta offrendo al Re un facile bersaglio.
E Patrick non ci sarebbe andato. Patrick sapeva che Roland aveva avuto degli amici e che ora tutti i suoi amici erano morti, quindi Patrick non ci sarebbe andato. Se Roland avesse avuto a disposizione un paio d'ore per convincerlo, forse anche una soltanto, sarebbe forse riuscito a far breccia nel suo terrore. Ma non c'era più tempo. Era quasi il tramonto.
E poi è vicino. Ci posso arrivare se proprio devo... e devo.
Nel clima più mite non era stato più indispensabile indossare le goffe manopole di pelle confezionate da Susannah, ma quella mattina Roland aveva calzato le sue e ora le aveva ancora, infilate nella cintura. Ne sfilò una e ne tagliò via l'estremità, in maniera da lasciar uscire le due dita che gli rimanevano. Il resto della manopola gli avrebbe protetto il palmo dalla spine. Infilò il mezzo guanto, poi appoggiò a terra un ginocchio e, con la pistola nell'altra mano, osservò la rosa più vicina. Una sarebbe bastata? Concluse che non c'erano alternative. Quella successiva era distante almeno altri due metri.
Patrick gli ghermì la spalla scuotendo freneticamente la testa.
«Devo», spiegò Roland e così era. Toccava a lui, non a Patrick, e aveva sbagliato nel cercare di mandarci il ragazzo. Se fosse riuscito nell'impresa, bene. Se avesse fallito e fosse stato disintegrato ai margini del Can'-Ka No Rey, si sarebbe almeno sottratto a quella terrificante trazione.
Respirò a fondo, poi partì di scatto uscendo allo scoperto. Contemporaneamente Patrick lo abbrancò di nuovo cercando di fermarlo. Lo prese per un lembo della giacca facendolo sbandare. Roland cadde goffamente sul fianco. La pistola gli volò via dalla mano, scivolando nell'erba alta. Il Re Rosso strillò (il pistolero sentì trionfo e furia nella sua voce) e subito l'aria vibrò del sibilo di un'altra boccia. Roland chiuse la destra inguantata sul gambo della rosa. Le spine passarono attraverso la pelle come fosse carta velina. Poi gli penetrarono nella mano. Il dolore fu enorme, ma il canto della rosa era dolce. Vide brillare come un piccolo sole il nucleo giallo nella coppa della sua corolla. No, non un sole, un milione di soli. Sentì il calore del sangue che gli riempiva la conca del palmo e gli scorreva tra le dita superstiti. Inzuppò la pelle, facendo sbocciare un'altra rosa sulla sua logora superficie marrone. E giunse la boccia che lo avrebbe ucciso, soffocando il canto della rosa, farcendogli la testa e minacciandogli di spaccargli il cranio.
Il gambo non si spezzò. Alla fine la rosa fu strappata intera dal terreno con tutte le radici. Roland rotolò sulla sinistra, afferrò la pistola e sparò senza guardare. Il cuore gli aveva detto che non c'era più tempo per guardare. Ci fu un'esplosione spaventosa e questa volta l'aria calda che lo schiaffeggiò fu come un uragano.
Un niente. Questa volta ci è mancato un niente.
Il Re Rosso urlò la sua frustrazione - IIIIIIIIIII! - e il suo grido fu seguito da una mitraglia di sibili. Patrick schiacciò addirittura la faccia contro la piramide. Con la rosa stretta nella mano sanguinante, Roland rotolò sulla schiena, alzò la pistola e attese che le bocce invertissero la direzione. Quando lo fecero, le obliterò: una e due e tre.
«ANCORA QUI!» urlò al vecchio Re Rosso. «ANCORA QUI, VECCHIO CIUCCIACAZZI, CHE TI SIA GRADITO!»
Il Re mandò un altro di quei suoi berci terribili, ma non scagliò altre bocce.
«COSÌ ADESSO HAI UNA ROSA!» gridò. «ASCOLTALA, ROLAND! ASCOLTALA BENE, PERCHÉ CANTA LA STESSA CANZONE! ASCOLTALA E COMMALA-COME-COME! COMMALA-VIENI-VIENI!»
Il richiamo che rimbombava nella testa di Roland era ormai un imperativo categorico. Gli bruciava furioso nei nervi.
Il pistolero afferrò Patrick e lo girò verso di sé. «Ora», disse. «Per la mia vita, Patrick. Per la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne che sono morti al posto mio perché io potessi proseguire.»
E bambini, pensò vedendo Jake con gli occhi della memoria. Jake appeso sulle tenebre e Jake che ne veniva ingoiato.
Fissò nel profondo gli occhi terrorizzati del giovane mutante. «Finiscilo! Mostrami che puoi.»
10
Fu testimone di un fatto straordinario: quando Patrick prese la rosa non si punse. Nemmeno un graffio. Roland si sfilò con i denti il guanto lacerato e vide che non solo il suo palmo era malamente tagliato, ma che un dito dei due che gli restavano era ora tenuto appeso da un solo tendine rosso di sangue. Ballonzolava come se volesse mettersi a dormire. Invece Patrick era rimasto illeso. Le spine non lo avevano ferito. E nei suoi occhi era scomparso il terrore. Guardava ora la rosa, ora il disegno, avanti e indietro, con dedita applicazione.
«ROLAND! CHE COSA STAI FACENDO! VIENI, PISTOLERO, CHE IL TRAMONTO È PROSSIMO!»
Sì, sarebbe andato. In un modo o nell'altro. Saperlo ebbe l'effetto di calmarlo un po', gli consentì di rimanere dov'era senza tremare troppo. La mano destra gli era diventata insensibile fino al polso e sospettava di averla perduta per sempre. Pazienza, non gli era stata più di grande aiuto da quando le aramostre gliel'avevano mutilata.
Sì, Roland, sì che riavrai la tua mano, cantò la rosa. Sarai di nuovo tutto intero. Ci sarà un rinnovamento. Ma tu vieni.
Patrick staccò un petalo, ne valutò la consistenza, poi ne staccò un secondo. Se li mise in bocca. Per un momento il suo volto si rilassò in una strana espressione estatica e Roland si domandò che sapore potessero avere quei petali. Sopra di loro il cielo diventava buio. L'ombra della piramide che le pietre avevano parzialmente esposto si allungava fin quasi alla strada. Quando la punta di quell'ombra l'avesse toccata, sarebbe venuto per Roland il momento di partire, anche se il Re Rosso fosse stato ancora padrone dell'ultimo tratto della via che portava alla Torre.
«COSA STAI FACENDO! IIIIIIII! QUALE DIAVOLERIA È ALL'OPERA NELLA TUA MENTE E NEL TUO CUORE?»
Senti chi parla di diavolerie, pensò Roland. Si tolse di tasca l'orologio e fece scattare il coperchio. Sotto il cristallo, le lancette filavano al contrario, dalle cinque alle quattro, dalle quattro alle tre, dalle tre alle due, dalle due all'una e dall'una a mezzanotte.
«Presto, Patrick», esortò. «Più presto che puoi, prego, perché il mio tempo è quasi scaduto.»
Patrick si avvicinò la mano a coppa sotto la bocca e si sputò nel palmo una pasta rossa del colore del sangue fresco. Il colore della tunica del Re Rosso. E lo stesso identico colore dei suoi occhi da pazzo.
In procinto di usare il colore per la prima volta nella sua vita d'artista, Patrick esitò quando già la punta dell'indice destro sfiorava la poltiglia che aveva preparato. Fu in quel momento che Roland ebbe una sorta di illuminazione: le spine di quelle rose pungevano solo finché le radici legavano ancora la pianta a Mim, ovvero la madre terra. Se con Patrick l'avesse spuntata, Mim avrebbe fatto a brandelli quelle mani piene di talento rendendole inservibili.
È ancora il ka, pensò il pistolero. Anche qui nel Fine-M...
Prima che potesse completare il suo pensiero, Patrick gli prese la mano destra e gliela scrutò con l'intensità di un chiromante. Mescolò all'impasto dei petali di rosa un po' del sangue che gli scorreva dalle ferite. Poi raccolse un minuscolo quantitativo della mistura sulla punta del medio della mano destra. Avvicinò il dito al disegno... esitò... guardò Roland. Roland lo esortò con un cenno del capo e Patrick ricambiò annuendo, serio come un chirurgo che sta per praticare la prima incisione di un intervento pericoloso, e posò il dito sulla carta. Il contatto fu delicato come quando il colibrì intinge il becco in un fiore. Colorò l'occhio sinistro del Re Rosso e si ritrasse. Patrick inclinò la testa su un lato e osservò il proprio operato con un incanto che Roland non aveva mai visto sul volto di un uomo in tutta la sua lunga vita di vagabondaggi. Gli sembrava di vedere un profeta Manni a cui fosse finalmente dato di scorgere per un attimo il viso di Gan dopo un'attesa nel deserto durata vent'anni.
Poi le sue labbra si distesero in uno sconfinato sorriso solare.
La risposta da parte della Torre Nera fu più immediata e, almeno per Roland, immensamente gratificante. Dal balcone, la vecchia creatura urlò tutto il suo dolore.
«COSA STAI FACENDO? IIIIIIII! IIIIIIII! FERMATI! BRUCIA! BRUUUUUUCIA! IIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!»
«Anche l'altro adesso», esclamò Roland concitato. «Presto! Per la tua vita e la mia!»
Patrick colorò l'altro occhio con lo stesso delicato tocco del polpastrello. Ora dal disegno in bianco e nero li fissavano due brillanti occhi rossi, occhi colorati con essenza di rosa e sangue dell'Eld; occhi che ardevano del fuoco stesso dell'Inferno.
Era fatto.
Finalmente Roland estrasse la gomma e la offrì a Patrick. «Fallo andar via», gli ordinò. «Fai che quell'orrido hob scompaia da questo mondo e da ogni mondo. Fallo andar via infine.»
11
Era indiscutibile che avrebbe funzionato. Dal momento in cui Patrick applicò la gomma al suo disegno - a quel ciuffetto di peli che uscivano dalla narice, per la precisione - il Re Rosso cominciò a urlare di rinnovato dolore e orrore. E di cognizione.
Patrick esitò, cercò una conferma da parte di Roland e Roland annuì. «Aye, Patrick il suo tempo è giunto e tu sarai il suo giustiziere. Procedi.»
Il Vecchio Re lanciò altre quattro bocce, che Roland spazzò via con serafica precisione. Dopodiché non ne scagliò più, perché da quel momento non ebbe più mani con cui tirarle. I suoi strilli inarticolati diventarono così penetranti da far temere a Roland di doverli portare per sempre con sé stampati nei timpani.
Il giovane mutante cancellò la bocca sensuale al centro di quella schiuma di barba e, mentre lui cancellava, gli strilli diventarono prima confusi, poi cessarono. Alla fine, quando Patrick ebbe cancellato tutto il resto, rimasero gli occhi: il bruscolo di gomma che il giovane teneva fra le dita non riusciva neppure a sbavarli. Resistettero fino a che il pezzetto di gomma rosa (originariamente parte di un Pencil-Pak acquistato a Norwich, Connecticut in occasione dei saldi scolastici di Woolworth nell'agosto del 1958) fu tanto consumato che il ragazzo non poté più reggerlo tra le unghie lunghe e sporche. Così lo buttò via e mostrò al pistolero quanto restava: due malvagie orbite rosso sangue a tre quarti dell'altezza della pagina.
Tutto il resto non c'era più.
12
L'ombra della punta della piramide toccava la strada; ora il cielo a ovest stava passando dall'arancione di un falò delle Messi al rosso di quel calderone di sangue che Roland vedeva nei suoi sogni fin dall'infanzia. In quel mentre la forza del richiamo della Torre si raddoppiò, poi triplicò. Roland lo sentì giungere fino a lui e afferrarlo con mani invisibili. L'ora del suo destino era giunta.
C'era però quel ragazzo. Quel ragazzo senza amici. Non lo avrebbe lasciato morire lì alla Fine-Mondo, se avesse potuto evitarlo. Non cercava espiazione, ma era pur vero che Patrick aveva finito per rappresentare tutte le morti e i tradimenti che infine lo avevano portato alla Torre Nera. La famiglia di Roland si era estinta; l'ultimo ad andarsene era stato il suo figlio bastardo; ora Eld e Torre si sarebbero ricongiunti.
Ma per prima cosa, o ultima...
«Ascoltami, Patrick», parlò, prendendogli la spalla con la mano sinistra ancora integra e la destra mutilata. «Se vivrai per dipingere tutti i quadri che il ka ha in serbo per il tuo futuro, non farmi una sola domanda e non chiedermi di ripetere una sola parola.»
Il ragazzo lo guardò, occhi grandi e bocca chiusa, nella rossa luce del giorno morente. E intorno a loro la canzone della Torre salì in un grido possente che altro non era che Commala.
«Torna sulla strada. Raccogli tutti i barattoli ancora interi. Dovrebbero bastare a sfamarti. Torna indietro. Non abbandonare mai la strada. Andrà tutto bene.»
Patrick annuì. Aveva capito benissimo. Roland vide che credeva alle sue parole e ne fu contento. La fiducia lo avrebbe protetto ancor meglio di una rivoltella, fosse anche di quelle con il calcio di legno di sandalo.
«Torna al Federale. Torna da quel robot, Bill Tartaglia che fu. Digli di condurti a una porta che si apre sul lato americano. Se non dovessi riuscire ad aprirla tu stesso, disegnala aperta con la tua matita. Hai capito?»
Patrick annuì di nuovo. Certo che aveva capito.
«Se il ka dovesse per caso portarti da Susannah in qualche quando o dove, dille che Roland la ama ancora e con tutto il cuore.» Strinse Patrick fra le braccia e lo baciò sulla bocca. «Dalle questo. Hai capito?»
Patrick annuì di nuovo.
«Bene. Io vado. Lunghi giorni e piacevoli notti. Quando tutti i mondi finiranno, che tu e io ci si possa ritrovare nella radura in fondo al sentiero.»
Ma già mentre lo diceva sapeva che non sarebbe avvenuto, perché i mondi non sarebbero mai finiti, non ora, e per lui non ci sarebbe stata nessuna radura. Per Deschain di Gilead, ultimo della stirpe dell'Eld, il sentiero finiva alla Torre Nera. E gli stava bene così.
Si alzò in piedi. Il giovane lo guardò con un'espressione smarrita negli occhi, stringendo il suo album. Roland si girò. Prese fiato fin nel fondo dei polmoni e lasciò partire un grido stentoreo.
«ORA VIENE ROLAND ALLA TORRE NERA! HO MANTENUTO FEDE ALLA MIA PAROLA E PORTO ANCORA LA PISTOLA DI MIO PADRE E TU TI APRIRAl ALLA MIA MANO!»
Patrick lo guardò incamminarsi verso il fondo della strada, una silhouette nera contro quel cielo colore del sangue. Guardò Roland camminare tra le rose e tremò tra le ombre dov'era seduto mentre Roland cominciava a invocare i nomi degli amici e delle persone amate e dei compagni di ka; quei nomi risuonarono limpidi in quell'aria strana, come se dovessero echeggiare per sempre.
«Vengo nel nome di Steven Deschain, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Gabrielle Deschain, colei che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Cortland Andrus, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Cuthbert Allgood, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Alain Johns, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Jamie DeCurry, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Vannay il Saggio, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di Hax il Cuoco, colui che è di Gilead!
«Vengo nel nome di David il Falcone, colui che è di Gilead e del cielo!
«Vengo nel nome di Susan Delgado, colei che è di Mejis!
«Vengo nel nome di Sheemie Ruiz, colui che è di Mejis!
«Vengo nel nome di Père Callahan, colui che è di Jerusalem's Lot e delle strade!
«Vengo nel nome di Ted Brautigan, colui che è dell'America!
«Vengo nel nome di Dinky Earnshaw, colui che è dell'America!
«Vengo nel nome di zia Talitha, colei che è di Crocefiume, e qui poserò la sua croce, come ho giurato!
«Vengo nel nome di Stephen King, colui che è del Maine!
«Vengo nel nome di Oy, il coraggioso, colui che è del Medio-Mondo!
«Vengo nel nome di Eddie Dean, colui che è di New York!
«Vengo nel nome di Susannah Dean, colei che è di New York!
«Vengo nel nome di Jake Chambers, colui che è di New York, colui che chiamo mio vero figlio!
«Io sono Roland di Gilead, e vengo io stesso; tu ti aprirai per me.»
Dopodiché risuonò un corno. Il suo suono gelò il sangue nelle vene di Patrick e contemporaneamente lo esaltò. L'eco si prolungò e spense. Poi, forse un minuto dopo, si udì un tonfo profondo e vibrante: il rumore di una porta che si chiudeva per sempre.
Dopodiché fu il silenzio.
13
Patrick rimase seduto alla base della piramide a rabbrividire finché nel cielo non spuntarono il Vecchio Astro e la Vecchia Madre. Il canto delle rose e della Torre non era cessato, ma si era abbassato di volume ed era diventato sonnolento, poco più di un mormorio.
Finalmente tornò alla strada, raccolse tutti i barattoli che poté (ce n'erano in numero sorprendente, considerata la potenza dell'esplosione che aveva demolito il carretto) e trovò un sacco di pelle in cui riporli. Si accorse di aver dimenticato la matita e tornò a prenderla.
Vicino alla matita brillava nella luce delle stelle l'orologio di Roland.
Il ragazzo lo raccolse con un piccolo (e nervoso) cinguettio di gioia. Se lo mise in tasca. Poi tornò sulla strada e si caricò in spalla il sacco delle provviste.
Posso dirvi che camminò fin quasi a mezzanotte e che guardò l'orologio prima di concedersi un riposo. Posso dirvi che l'orologio si era fermato del tutto. Posso dirvi che, a mezzogiorno dell'indomani, lo guardò di nuovo e vide che le lancette avevano ripreso a muoversi nella direzione giusta, seppure molto lentamente. Ma di Patrick non posso dirvi altro, né se riuscì a tornare al Federale, né se trovò Bill Tartaglia che fu, non se tornò infine sul lato americano. Non posso dirvi niente di queste cose, dico scusa. Qui l'oscurità lo nasconde al mio occhio di narratore e deve proseguire da solo.
Susannah a New York
(Epilogo)
Nessuno si spaventa quando il piccolo veicolo elettrico spunta dal nulla un centimetro per volta finché non si è completamente materializzato a Central Park; nessuno lo vede oltre a noi. La maggior parte di quelli che si trovano lì stanno guardando il cielo, da dove cadono i primi fiocchi di neve di quella che sarà una grande bufera prenatalizia. La Tempesta dell'87, la battezzeranno i giornali. Chi non sta guardando la neve che cade, sta guardando i cori di Natale, che sono arrivati dalle scuole pubbliche della periferia. Indossano blazer rosso scuro (i maschi) o maglioni rosso scuro (le femmine). Questo è il Coro dell'Harlem School, che talvolta appare con un nome di The Harlem Roses sulle pagine del Post e su quelle del suo rivale, il Sun di New York. Cantano un antico salmo in un incantevole doowop, schioccando le dita sulle battute del pentagramma in una versione in cui qualcuno potrebbe riconoscere echi dei primi Spurs, dei Coasters o dei Dark Diamonds. Si sono fermati poco distante da dove gli orsi polari conducono la loro esistenza metropolitana e il salmo che cantano è What Child Is This.
Uno di coloro che stanno guardando la neve è una persona che Susannah conosce bene e, alla sua vista, il suo cuore spicca un salto. Nella sinistra regge un tazzone di plastica e Susannah è sicura che contenga cioccolata calda, quella buona, mit schlag.
Per qualche attimo non riesce a toccare i controlli del suo piccolo veicolo, venuto da un altro mondo. I pensieri di Roland e Patrick hanno abbandonato la sua mente. Riesce a pensare solo a Eddie: Eddie davanti a lei in quel preciso istante, Eddie di nuovo vivo. E se quello non è il Mondo Cardine, non proprio, che importanza ha? Se Co-Op City è a Brooklyn (o anche nel Queens!) e Eddie guida una Takuro Spirit invece di una Buick Electra, che importanza ha? Nessuna. Solo una cosa conta. Ed è quella che le impedisce di dare gas e andare verso di lui.
Se non la riconoscesse?
Se quando si girasse, vedesse solo una vagabonda di colore su un veicolo elettrico la cui batteria presto sarà più a terra di una gomma bucata, una donna di colore senza quattrini, senza vestiti, senza fissa dimora (non ce l'ha di sicuro in questo dove e quando, diciamo grazie sai) e senza gambe? Una senza casa che non ha niente a che fare con lui? O se invece la riconoscesse, sì, la ritrovasse in qualche angolo buio della memoria, ma lo stesso la rinnegasse recisamente come Pietro aveva rinnegato Gesù, perché ricordare sarebbe semplicemente troppo doloroso?
Peggio ancora, poniamo che si girasse verso di lei e le mostrasse lo sguardo vacuo, bruciato e rincretinito del tossico di lunga data? E se, e se, e intanto scende la neve che presto imbiancherà il mondo intero.
Piantala di mugugnare e vai da lui, la incita Roland. Non hai affrontato Blaine e il taheen di Cielo Blu e l'orrore sotto Castello Discordia solo per battertela ora con la coda tra le gambe, giusto? Avrai pure un briciolo di fegato.
Ma Susannah non è sicura di averlo fino a quando non vede la propria mano che si chiude sulla manopola del gas. Prima di ruotarla, però, la voce del pistolero le parla di nuovo, questa volta stanca e divertita.
Forse c'è qualcosa di cui ti vuoi liberare, prima, Susannah?
Abbassa gli occhi e vede la pistola di Roland infilata nella cintura, come quella di un bandido messicano, o il coltellaccio di un pirata. La sfila, sorpresa dell'effetto piacevole che le fa sentirsela nella mano... così brutalmente giusto. Separarsi da essa, pensa, sarà come separarsi da un amante. E non è che ci sia costretta, vero? La domanda è: che cosa ama di più? L'uomo o la pistola? Ogni altra scelta deriverà da questa.
D'impulso ruota il tamburo e vede che le cartucce che contiene sono vecchie, i bossoli sono opachi.
Queste non spareranno mai, pensa... e, senza sapere perché o che cosa possa mai significare: sono bagnate.
Guarda nella canna e la rattrista un po', ma non la meraviglia, di vedere che la luce non vi passa attraverso. È ostruita. Lo è da decenni, sembrerebbe. Quella pistola non sparerà mai più. Non ci sono scelte da fare, alla fine. Questa pistola ha chiuso.
Sempre impugnando in una mano la rivoltella con il calcio di sandalo, con l'altra Susannah dà gas. Il piccolo scooter elettrico, quello che ha battezzato Fior Junior III, un nome che tuttavia già si va dissolvendo nella sua mente, riparte senza rumore. Passa davanti a un cestino verde con la scritta MANTENETE LA CITTÀ PULITA. Lascia cadere la rivoltella di Roland nel cestino dei rifiuti. Farlo le provoca una fitta al cuore, ma non esita. È pesante e sprofonda nelle carte dei fast food, nei volantini pubblicitari e nei giornali, come un sasso nell'acqua. È ancora abbastanza pistolera da rimpiangere con amarezza di doversi disfare di un'arma così veneranda (anche se l'ultimo viaggio tra i mondi l'ha gravemente sciupata), ma è già diventata abbastanza la donna che l'attende poco distante, da non indugiare o girarsi indietro dopo che il gesto è compiuto.
Non ha ancora raggiunto l'uomo con la tazza di plastica, che lui si gira. Indossa davvero una felpa con la scritta IO BEVO NOZZ-A-LA!, ma lei quasi non lo registra. È lui: ecco che cosa registra. È Edward Cantor Dean. E subito dopo anche questo diventa secondario, perché quello che vede nei suoi occhi è ciò che aveva temuto. Quello che vede è sconcerto totale. Non la riconosce.
Poi, titubante, sorride, ed è il sorriso che lei ricorda, quello che ha sempre amato. Ed è pulito, lo capisce all'istante. Glielo legge in faccia. Soprattutto negli occhi. I coristi di Harlem cantano e lui le porge la tazza di cioccolata calda.
«Era ora», dice. «Stavo cominciando a pensare di dovermela bere io. Che quelle voci erano sbagliate e che alla fine stavo diventando matto. Che... be'...» Lascia morire la frase, più sconcertato di prima. Sembra impaurito. «Senti, tu sei qui per me, vero? Ti prego, dimmi che non sto facendo la figura del coglione senza speranza. Perché, mia cara, in questo momento mi sento nervoso come un gatto con la coda lunga in una stanza piena di sedie a dondolo.»
«No», risponde lei. «Non stai facendo la figura del coglione, intendo.» Ricordò la storia che aveva raccontato Jake delle voci che sentiva litigare nella testa, una che gridava che era morto, l'altra che era vivo. Entrambe assolutamente convinte. Ha almeno una vaga idea di quanto terribile debba essere, perché sa qualcosa di altre voci. Voci strane.
«Meno male», dice lui. «Ti chiami Susannah?»
«Sì», conferma. «Mi chiamo Susannah.»
Ha la gola terribilmente secca, ma le parole vengono fuori, anche se a fatica. Prende la tazza dalle sue mani e beve la cioccolata calda attraverso la panna. È dolce e buona, un sapore di questo mondo. È ugualmente buono il suono dei clacson, con cui i tassisti sfogano l'ansia di guadagnarsi la giornata prima che la neve li blocchi. Lui sorrise e allunga il dito per toglierle un pizzico di panna dalla punta del naso. Il suo tocco è elettrizzante e vede che sente la scossa anche lui. Pensa che la bacerà di nuovo per la prima volta e dormirà di nuovo con lei per la prima volta e s'innamorerà di lei di nuovo per la prima volta. Lui forse sa tutte queste cose perché glielo hanno detto le voci, ma lei le sa per una ragione migliore: perché queste cose sono già successe. Ka è una ruota, diceva Roland, e adesso sa che è vero. I suoi ricordi del
(Medio-Mondo)
dove e quando del pistolero si stanno annebbiando, ma crede che ne conserverà abbastanza memoria da sapere che tutto è già accaduto e in questo c'è qualcosa di incredibilmente triste.
Ma allo stesso tempo è bello.
È un dannato miracolo, ecco che cos'è.
«Hai freddo?» chiede lui.
«No, sto bene. Perché?»
«Tremi.»
«È la panna.» Poi, guardandolo, sporge la lingua e prende sulla punta un po' di schiuma spruzzata di noce moscata.
«Se non hai freddo adesso, l'avrai», dice lui. «Alla WRKO dicono che stanotte la temperatura scenderà di sette gradi. Così ti ho portato qualcosa.» Dalla tasca posteriore estrae un berretto di maglia, di quelli che ti puoi tirare giù sopra le orecchie. Lei guarda sul davanti e vede la scritta in rosso: BUON NATALE.
«L'ho comprato da Brendio's, nella Quinta Avenue»
Susannah non ha mai sentito questo Brendio's. Forse Brentano's, la libreria, ma non Brendio's. È anche vero però che nell'America dove è cresciuta lei non aveva mai sentito Nozz-A-La o automobili Takuro Spirit. «Sono state le voci a dirti di comprarlo?» Ora lo stuzzica un po'.
Lui arrossisce. «Be', per la verità, in un certo senso sì. Provalo.»
Le va alla perfezione.
«Dimmi una cosa», chiede lei. «Chi è il Presidente? Non mi dirai che è Ronald Reagan, vero?»
Lui resta per un momento interdetto, poi sorride. «Cosa? Quel vecchio attore che presentava Death Valley Days alla TV? Starai scherzando!»
«No. Ho sempre pensato che fossi tu quello che scherzava su Ronnie Reagan, Eddie.»
«Non so di che cosa parli.»
«Non fa niente, dimmi solo chi è il presidente.»
«Gary Hart», risponde come rivolgendosi a una bambina. «Del Colorado. Nel 1980 per poco non lo hanno fatto fuori, come sicuramente saprai, per quella faccenda del Monkey Business. Poi ha detto: 'Se non sanno stare allo scherzo, se ne vadano a fare in culo', e ha tenuto duro. Alla fine è stato un plebiscito.»
Il suo sorriso trema mentre la osserva.
«Non mi stai prendendo per i fondelli, vero?»
«Dimmi se sei tu a prendere per i fondelli me su quelle voci? Quelle che senti nella testa? Quelle che ti svegliano alle due di notte?»
Eddie è quasi scioccato. «E tu come lo sai?»
«È una lunga storia. Forse un giorno te la racconto.» Se me la ricordo ancora, pensa.
«Non sono solo le voci.»
«No?»
«No. Ti sogno. Da mesi ormai. Ti aspettavo. Senti, noi non ci conosciamo... tutto questo è pazzesco... ma hai un posto dove andare? Non ce l'hai, vero?»
Lei scuote la testa. «Sono forestiera qui a Dodge, straniero», dice in una discreta imitazione di John Wayne, (ma forse sta imitando Blaine).
Il cuore le batte lento e pesante nel petto, ma sente salire la gioia. Andrà tutto bene. Non sa come possa essere però sì, andrà tutto bene. Questa volta il ka lavora a suo favore e la forza del ka è enorme. Questo lo sa per esperienza diretta.
«Se ti chiedessi come mai ti conosco... o da dove vieni...» S'interrompe guardandola diritto negli occhi. Poi arriva fino in fondo. «O com'è mai possibile che sia già innamorato di te?...»
Lei sorride. È bello sorridere e quando lo fa non sente più dolore alla guancia, perché quello che c'era (una cicatrice, forse, non ricorda bene) non c'è più. «Zuccherino», gli dice, «è come ti ho detto: una lunga storia. Ma qualcosa ti racconterò... quello che riuscirò a ricordare. E può darsi che ci sia ancora qualcosa che dobbiamo fare. Per una società che si chiama Tet Corporation.» Si guarda intorno poi aggiunge: «Che anno è?»
«1987», risponde.
«E tu abiti a Brooklyn? O stai nel Bronx?»
Il giovane che è stato guidato fin lì dai sogni e da un vociare farneticante nella testa - con una tazza di cioccolata calda in mano e un berretto con scritto BUON NATALE nella tasca posteriore - scoppia a ridere. «Mio Dio, no! Io sono di White Plains! Sono venuto in treno con mio fratello. Eccolo là. Ha voluto andare a vedere da vicino gli orsi bianchi.»
Il fratello. Henry. Sua eminenza e saggezza il tossico. Ha un tuffo al cuore.
«Lascia che ti presenti», dice lui.
«No, davvero, non...»
«Ehi, se dobbiamo essere amici, dobbiamo essere amici anche del mio fratellino. Noi due siamo una cosa sola. Jake! Ehi, Jake!»
Non si era accorta del ragazzino al parapetto che separa la fossa degli orsi polari dal resto del parco, ma adesso si gira e il cuore di lei spicca un balzo e una capriola. Jake saluta con la mano e viene verso di loro.
«Anche Jake ti sogna», le confida Eddie. «È l'unica ragione per cui so che non sto diventando matto. Non più matto del solito, intendo.»
Lei gli prende la mano, quella mano che conosce così bene e che tanto ama. E quando le dita si chiudono sulle sue, pensa che morirà di gioia. Quante domande avrà da fargli - e altrettante avranno loro - ma al momento ne ha solo una che sente importante. Mentre la neve comincia a cadere più fitta intorno a loro, gli si posa sui capelli e sulle ciglia e sulle spalle della felpa, gliela fa.
«Tu e Jake... come vi chiamate di cognome?»
«Toren», dice lui. «E tedesco.»
Prima che possano parlare ancora, Jake li raggiunge e devo dirvi che questi tre vivranno felici e contenti? Non ve lo dirò, perché non è così che va mai a nessuno. Ma della felicità c'è stata.
E sono vissuti.
Sotto la malia fluente e talvolta intravista del Vettore che collega Shardik l'Orso e Maturin la Tartaruga passando per la Torre Nera, sono vissuti.
Questo è tutto.
Questo è sufficiente.
Diciamo grazie.
Trovata
(Coda)
1
Ho raccontato la mia storia fino alla fine e sono soddisfatto. È stata (la mia parola in pegno) di quelle che solo un Dio buono terrebbe per ultima, piena di mostri e meraviglie e viaggi in ogni dove. Ora posso fermarmi, posare la penna e riposare la mano stanca (anche se forse non per sempre; la mano che racconta le storie ha una mente propria e l'inclinazione a diventare irrequieta). Posso chiudere gli occhi sul Medio-Mondo e tutto ciò che si trova al di là del Medio-Mondo. Probabilmente però alcuni di voi, che mi avete prestato orecchio senza il quale nessuna storia può sopravvivere un solo giorno, non sono molto d'accordo. Voi siete i draconiani paladini del risultato finale che rifiutano di credere che la gioia stia nel viaggio e non nella destinazione e poco vi importa quante volte abbiate avuto riprova del contrario. Siete gli sfortunati che si ostinano a vedere l'essenza del fare l'amore nel misero spruzzetto che giunge alla fine dell'amore fatto (l'orgasmo è il modo che ha Dio per dirci che abbiamo finito, almeno per il momento, e che è ora di dormire). Voi siete quei crudeli che rinnegano i Rifugi Oscuri, dove vanno a riposare i personaggi stanchi. Dite di voler sapere come va a finire. Dite di voler seguire Roland nella Torre; dite che è per questo che avete pagato, che questo è lo spettacolo che siete venuti a vedere.
Spero che la maggior parte di voi sia più lungimirante e che voglia guardare oltre. Spero che siate venuti qui ad ascoltare la storia e non solo a macinare pagine per arrivare alla fine. Se volete la fine, non avete che da andare all'ultima pagina e vedere che cosa c'è scritto. Ma i finali sono senza cuore. Un finale è una porta chiusa che nessun uomo (o Manni) può aprire. Io ne ho scritti molti, ma soprattutto solo per la stessa ragione per cui la mattina prima di uscire dalla camera da letto, mi infilo i calzoni: perché è il costume del paese.
Dunque, mio caro Fedele Lettore, questo ti dico: puoi fermarti qui. Puoi lasciare che il tuo ultimo ricordo sia di aver visto, Eddie, Susannah e Jake a Central Park, insieme di nuovo per la prima volta, ad ascoltare i ragazzi che cantano in coro What Child Is This. Puoi sentirti appagato nella consapevolezza che presto o tardi anche Oy (probabilmente una sua versione canina con il collo lungo, strani occhi cerchiati d'oro e un modo di abbaiare che talvolta suona misteriosamente articolato come fosse un linguaggio) farà la sua ricomparsa nel quadretto. È un bel quadretto, no? A me piace. E si avvicina molto al «vissero felici e contenti». Per quanto ci si può aspettare dal governo, direbbe Eddie.
Se dovessi andare
avanti, resteresti senz'altro deluso, forse ne avresti addirittura
il cuore spezzato. Mi resta una chiave appesa alla cintura, ma la
sola porta che può aprire è l'ultima, quella con scritto . Quello
che c'è dietro non migliorerà la tua vita amorosa, non ti farà
ricrescere i capelli sulla piazza, non allungherà di cinque anni la
tua aspettativa di vita naturale (nemmeno di cinque minuti). Quella
cosa che chiamiamo lieto fine non esiste. Non ne ho mai trovato uno
che fosse alla pari di «C'era una volta».
I finali sono senza cuore.
Finale è solo un sinonimo di addio.
2
Vuoi andare avanti lo stesso?
Molto bene, vieni, allora. (Mi hai sentito sospirare?) Ecco qui la Torre Nera, alla fine del Fine-Mondo. Vedila, io ti prego.
Vedila molto bene.
Ecco qui la Torre Nera al tramonto.
3
Ci arrivò con una stranissima sensazione di rimembranza; quella che Susannah e Eddie chiamavano «déjà-vu».
Le rose del Can'-Ka No Rey si separavano davanti a lui in un sentiero che porta alla Torre Nera, i soli gialli nel fondo delle loro corolle sembravano osservarlo come occhi. E mentre si avvicinava a quella colonna grigio scuro, Roland sentì che incominciava ad allontanarsi dal mondo come lo aveva sempre conosciuto. Aveva invocato i nomi degli amici e delle persone amate, come sempre aveva promesso a se stesso di fare; li aveva invocati all'imbrunire e con una forza perfetta, perché non c'era più bisogno di conservare le energie con cui combattere contro la trazione della Torre. Arrendersi - finalmente - è stato il più grande sollievo della sua vita.
Aveva chiamato i nomi dei suoi compadres e amoras e, sebbene ciascuno fosse uscito dal profondo del suo cuore, ciascuno di essi gli era anche un po' più estraneo. Nome dopo nome, il suo appello si era disteso in lontananza verso il rosso sempre più cupo dell'orizzonte. Aveva invocato Eddie e Susannah. Aveva invocato Jake e per ultimo aveva enunciato il proprio nome. Spentasi quell'ultima invocazione, gli aveva risposto il clangore potente di un grande corno, che non proveniva dalla Torre, bensì dalle rose distese intorno a essa come un tappeto. Quel corno era la voce delle rose che gli tributava un benvenuto regale.
Nei miei sogni quel corno è sempre stato mio, pensò. Avrei dovuto capire che il mio era andato perso con Cuthbert, a Jericho Hill.
Una voce bisbigliò sopra di lui: Sarebbe stata questione di tre secondi chinarsi a raccoglierlo. Anche nel fumo e nella morte. Tre secondi. Tempo, Roland: sempre a quello si torna.
Era la voce del Vettore, pensò, quello che lui aveva salvato. Se parlava per gratitudine avrebbe potuto risparmiarsi il fiato, perché a cosa gli servivano ora quelle parole? Ricordò un verso di una poesia di Browning Un assaggio dei tempi andati sistema tutto.
Così non era mai stato per lui. Nella sua esperienza i ricordi portavano solo tristezza. Erano il nutrimento di poeti e sciocchi, caramelle che lasciavano in bocca e in gola un retrogusto amaro.
Roland si fermò per un momento quando era ancora a dieci passi dalla porta fantasma di legno alla base della Torre, aspettando che l'eco della voce delle rose - quel corno che gli dava il benvenuto - si spegnesse nel nulla. La sensazione di déjà-vu era ancora forte, quasi che fosse già stato lì. E naturalmente così era, in diecimila sogni premonitori. Alzò lo sguardo al balcone da dove il Re Rosso aveva sfidato il ka e cercato di fermare lui. Lassù, un paio di metri al di sopra degli scatoloni con le bocce rimaste (a quanto sembrava il vecchio pazzo non aveva avuto altro nel suo arsenale), vide due occhi rossi, sospesi nell'aria scura, che lo fissavano con odio eterno. Dietro di essi, l'argento dei sottili nervi ottici (ora tinti di rosso-arancione dalla luce del sole morente) terminavano nel nulla. Probabilmente gli occhi del Re Rosso sarebbero rimasti lì per sempre a guardare il Can'-Ka No Rey, mentre il loro proprietario vagava nel mondo in cui era stato spedito dalla gomma di Patrick e dall'occhio incantato dell'artista. O, più probabilmente, nello spazio tra i mondi.
Roland percorse l'ultimo tratto di sentiero che terminava davanti alla tavola di legno fantasma rinforzato da bande d'acciaio. Su di essa era scolpito a tre quarti d'altezza un sigul che ormai conosceva bene:
Qui posò due oggetti, quanto restava del suo fardello: la croce di zia Talitha e la sua sei colpi superstite. Quando si rialzò, vide che i primi due geroglifici erano scomparsi:
INTROVATA era diventato TROVATA.
Alzò la mano come per bussare, ma la porta si aprì da sé prima che potesse toccarla, si aprì sui primi gradini di una scala che saliva a spirale. Udì una voce sospirante: Benvenuto, Roland, della stirpe dell'Eld. Era la voce della Torre. La costruzione non era poi di pietre, anche se così sembrava; quella era materia vivente, Gan stesso, probabilmente, e le pulsazioni che aveva percepito nel profondo della testa, quando ancora era a migliaia di miglia da lì, erano sempre state il battito della forza vitale di Gan.
Commala, pistolero. Commala-Come-Come.
E dall'interno scaturì un odore di alcali, salato come lacrime. L'odore di... che cosa? Che cosa, in realtà? Prima che potesse individuarlo, l'odore scomparve, lasciandolo a chiedersi se se lo fosse immaginato.
Entrò e la canzone della Torre, che aveva sempre sentito - anche a Gilead, dov'era celata nella voce di sua madre quando gli cantava le ninna nanna - finalmente cessò. Ci fu un altro sospiro. La porta si richiuse con un tonfo, ma non fu lasciato nell'oscurità. La luce che restò era quella delle finestre a spirale mescolata con il chiarore del tramonto.
Gradini di pietra, erano quelli che salivano a chiocciola, larghi per una persona sola.
«Sta salendo Roland», gridò e le sue parole sembrarono a scendere a spirale nell'infinito. «Tu che sei in cima, odimi e dammi il tuo benvenuto se vuoi. Se mi sei nemico, sappi che vengo disarmato e vengo in pace.»
Cominciò a salire.
Diciannove gradini lo portarono al primo pianerottolo (e così fu sempre). Lì c'era una porta aperta su una piccola stanza circolare. Le pietre del suo muro erano scolpite di migliaia di volti sovrapposti. Molti li conosceva (c'era anche quello di Calvin Torre, che sbirciava sornione da sopra un libro aperto). Le facce lo guardavano e Roland sentì il loro brusio.
Benvenuto, Roland, tu che sei di molte miglia e di molti mondi; benvenuto a te di Gilead, tu che sei dell'Eld.
All'estremità della stanza c'era una porta affiancata da festoni rosso scuro bordati d'oro. A un paio di metri da essa, all'altezza esatta dei suoi occhi, c'era una finestrella rotonda, poco più grande di uno spioncino. Lì regnava un odore dolce e questa volta riuscì a identificarlo: la fragranza di pino che sua madre aveva posto prima nella sua culla e in seguito nel suo primo letto vero e proprio. Esumò con grande chiarezza quei giorni, come sempre fanno i profumi; se c'è un senso che può fungerci da macchina del tempo, è l'olfatto.
Poi, come l'afflato amarognolo dell'alcale, svanì.
Non c'erano mobili, ma per terra c'era un oggetto. Entrò a prenderlo. Era una fibula di cedro avvolta in un nastro di seta celeste. Ne aveva già visti altri, a Gilead; lui stesso doveva averne portato uno. Quando il segaossi tagliava il cordone ombelicale di un neonato separando madre da figlio, una fibula come quella veniva fissata sull'ombelico del bambino, dove sarebbe rimasta fino a quando non fosse caduto il moncherino di cordone; e la fibula con esso. (L'ombelico era chiamato tet-ka can Gan.) Il fiocchetto di seta gli diceva che quella fibula era appartenuta a un maschietto. Per una femminuccia ci sarebbe stato un nastro rosa.
È la mia, pensò. La osservò per un momento ancora, affascinato, poi la posò per terra rimettendola con cura dove l'aveva presa. Al suo posto. Quando si rialzò, vide la faccia di un neonato
(è questo forse il mio amato bah'bo? Se così dici, che così sia!)
nella moltitudine delle effigi. Era distorta, come se la sua prima boccata di aria fuori dell'utero non gli fosse piaciuta, già insozzata dalla morte. Presto avrebbe pronunciato il suo giudizio sulla sua nuova situazione con uno strillo che avrebbe fatto tremare gli appartamenti di Steven e Gabrielle, facendo sorridere di sollievo tutti gli amici e i servi che lo avessero udito. (Solo Marten Broadcloak aggrottò la fronte.) Il parto era avvenuto ed era nato un bimbo vivo, diciamo grazie a Gan e a tutti gli dei. C'era un erede nella stirpe dell'Eld e di conseguenza c'era ancora la sottilissima speranza che il mesto declino del mondo verso la rovina fosse arrestato.
Roland lasciò quella stanza, colto da un senso di déjà-vu più forte che mai. Era stato come se fosse entrato nel corpo stesso di Gan.
Riprese a salire.
4
Altri diciannove gradini lo portarono al secondo pianerottolo e alla seconda stanza. Qui sul pavimento circolare erano sparsi pezzi di stoffa.
Roland riconobbe i resti di quelle che erano state sicuramente le fasce di un infante, fatte a brandelli da un certo capriccioso intruso, uscito poi sul balcone per dare un'occhiata al campo di rose e trovarsi così prigioniero. Era una creatura di monumentale astuzia, pieno di malvagia saggezza... ma alla fine aveva commesso un errore, e ora avrebbe pagato per l'eternità.
Se voleva dare solo un'occhiata, perché quando è uscito ha portato con sé quelle munizioni?
Perché era il suo unico bagaglio e ce l'aveva in spalla, sussurrò una delle facce scolpite nella curva del muro. Era la faccia di Mordred. Roland non vide rancore in essa, ma solo la tristezza desolata di un figlio abbandonato. In quel viso c'era tutto il languore del fischio di un treno in una notte senza luna. Niente fibula, mai e poi mai, perché Mordred non era mai stato parte del tet di Gan. No, lui no.
Il mio padre rosso non sarebbe mai partito disarmato, bisbigliò il volto di pietra. Non avrebbe mai lasciato disarmato il suo castello. Era pazzo, ma mai così pazzo.
In quella stanza c'era l'odore del talco che sua madre spargeva sul suo corpicino nudo, steso su un asciugamano, fresco di bagno, a giocare con le dita dei piedi appena scoperti. Lo cospargeva di talco e mentre lo accarezzava cantava: bimbo caro, bel bambino, porta pieno il tuo cestino!
Anche quel profumo scomparve in pochi attimi.
Roland andò alla finestrella, camminando tra i brandelli di fasce e guardò fuori. Gli occhi sospesi avvertirono la sua presenza e si girarono a guardarlo. Fu uno sguardo velenoso di collera e sconfitta.
Vieni fuori, Roland! Vieni fuori ad affrontarmi a viso aperto! Da uomo a uomo! Occhio per occhio, di grazia!
«Non credo», rispose Roland, «perché ho altro da fare. Ancora qualcosa, nonostante tutto.»
Furono le sue ultime parole al Re Rosso. Per quanto il pazzo gli urlasse i suoi pensieri, urlò invano, perché Roland non si girò più. Aveva altre scale da salire e altre stanze da visitare nel suo viaggio verso la cima.
5
Sul terzo pianerottolo guardò da una porta e vide un pagliaccetto di velluto a coste che era stato senza dubbio suo quando aveva solo un anno. Tra i volti scolpiti su quel muro vide quello di suo padre, ma quand'era ancora molto giovane. Più tardi quel volto sarebbe diventato crudele, così trasformato dai casi della vita e le responsabilità. Lì gli occhi di Steven Deschain erano quelli che fissano qualcosa da cui trae un piacere come non ha mai provato prima e mai proverà. L'aroma muschioso che sentì in quella stanza era quello del sapone da barba di suo padre. Guarda, Gabby, guarda! sussurrò una voce fantasma. Sorride! Sorride a me! e ha un dentino nuovo!
Sul pavimento della quarta stanza c'era il collare del suo primo cane, Ring-A-Levio, Ringo, per gli amici. Era morto quando Roland aveva tre anni ed era stata una fortuna. A un bambino di tre anni è ancora consentito piangere la morte di un animale amato, anche quando nelle sue vene scorre il sangue dell'Eld. Qui il pistolero che fu fiutò un odore che era meraviglioso ma non aveva nome e riconobbe quello del sole di Piena Terra nel pelo di Ringo.
Una ventina di piani più su di quello su cui si trovava la stanza di Ringo c'erano briciole di pane e un inerte mucchietto di penne che un tempo erano state un falco di nome David: non propriamente un animale domestico, ma certamente un amico. Il primo dei molti sacrifici offerti da Roland alla Torre Nera. In uno spicchio di muro Roland vide David scolpito in volo, con le tozze ali distese sulla corte riunita di Gilead (non mancava fra gli altri Marten l'Incantatore). E alla sinistra della porta che dava sul balcone, era ritratto nuovamente il falco. Qui aveva le ali ripiegate e scendeva in picchiata su Cort come un proietto cieco, per nulla intimorito dal bastone che Cort protendeva nell'aria.
Remoti fatti.
Remoti fatti e remoti misfatti.
Poco distante da Cort c'era il volto ridente della prostituta con cui il ragazzo aveva trascorso quella notte. L'odore nella stanza di David era quello del suo profumo, dozzinale e dolce. Mentre inalava, il pistolero ricordò il momento in cui aveva toccato i riccioli del pube della prostituta e lo sconcertò ricordare ora ciò che aveva ricordato allora, quando le dita erano scivolate verso la fessura di dolce bagnata: le mani di sua madre posate sul suo corpicino fresco di bagnetto.
Cominciò ad avere un'erezione e fuggì da quella stanza impaurito.
6
Ora non c'era più luce rossa a illuminare la sua salita, solo il misterioso bagliore azzurro delle finestre, occhi di vetro che erano vivi, occhi di vetro che sorvegliavano l'intruso disarmato. Fuori della Torre Nera, le rose del Can'-Ka No Rey si erano chiuse per l'indomani. La sua mente era da una parte meravigliata che si trovasse lì; che avesse superato uno dopo l'altro gli ostacoli disseminati sul suo cammino, spietato nella sua risolutezza. Sono come un robot degli Antichi, pensò. Uno che porta a compimento la missione per cui è stato costruito o si distrugge nel tentativo di farlo.
D'altra parte però non si sentiva minimamente sorpreso. Questa era la parte di lui che condivideva gli stessi sogni dei Vettori e questa metà più oscura pensò di nuovo al corno caduto dalle dita di Cuthbert... l'amico Cuthbert che era andato a morte ridendo. Il corno che forse in quel preciso istante giaceva là dove era caduto, sul pendio sassoso di Jericho Hill.
Certo che ho già visto questa stanza! Raccontano la mia vita, dopotutto.
Verissimo. Piano per piano e storia per storia (per non dire anche morte per morte), le stanze della Torre Nera raccontavano la vita e la ricerca di Roland Deschain. Ciascuna conservava le proprie reliquie; ciascuna l'aroma che ne era il marchio. In molti casi c'era più di un solo piano dedicato a un solo anno, ma ce n'era sempre almeno uno. E dopo la trentottesima stanza (che è due volte diciannove, se vedi bene, di grazia), gli passò la voglia di guardare. Quella stanza conteneva il palo carbonizzato al quale era stata legata Susan Delgado. Non vi entrò, ma guardò il volto scolpito nel muro. Tanto le doveva. Roland, ti amo! aveva gridato Susan Delgado e lui sapeva che era la verità, perché era solo il suo amore a renderla riconoscibile. E, amore o no, alla fine era stata bruciata lo stesso.
Questo è un luogo di morte, pensò, e non solo qui. Tutte queste stanze. Tutti i piani.
Sì, pistolero, sussurrò la voce della Torre. Ma solo perché così l'ha reso la tua vita.
Dopo il trentottesimo piano, Roland salì più in fretta.
7
Dall'esterno Roland aveva calcolato che la Torre fosse alta circa duecento metri, ma dopo aver lanciato uno sguardo nella centesima e poi nella duecentesima, si rese conto che doveva aver salito otto volte duecento metri. Non poteva mancare molto a quella misura delle distanze che i suoi amici del lato americano chiamavano miglio. C'erano più piani di quanto fosse possibile - nessuna Torre poteva essere alta un miglio! - eppure stava salendo ancora, salì finché quasi si mise a correre, senza tuttavia stancarsi mai. Temette a un certo punto di non arrivare mai in cima; che la Torre Nera fosse infinita in altezza quanto essa era eterna nel tempo. Ma dopo aver brevemente riflettuto, respinse quell'ipotesi, perché era la sua vita, quella che la Torre andava narrando, e per quanto lunga fosse stata, non era certo eterna. E come aveva avuto un inizio (segnato dalla fibula di cedro e quel nastrino di seta celeste), così avrebbe avuto una fine.
Presto ormai, molto probabilmente.
La luce che sentiva dietro gli occhi era ora più brillante e non gli sembrava blu come prima. Passò davanti alla stanza dove si trovava Zoltan, l'uccello della capanna del mangiatore d'erba. Passò davanti alla stanza in cui si trovava la pompa atomica della stazione di posta. Salì altre scale, sostò davanti a una stanza che conteneva un'aramostra morta e a quel punto la luce che sentiva era molto più brillante e non era più blu.
Era...
Era sicurissimo che fosse...
Era luce solare. Fosse anche mezzanotte passata, con il Vecchio Astro e la Vecchia Madre che splendevano nel cielo sopra la Torre Nera, Roland era sicurissimo che quella che vedeva - o percepiva - fosse luce solare.
Salì ancora senza più guardare nelle stanze, senza indugiare ad annusare i loro aromi del passato. Il vano continuò a stringersi tanto che ormai ne sfiorava con le spalle i muri incurvati. Niente più canti ora, a meno che fosse canto la voce del vento, perché lo sentiva sospirare.
Passò davanti a un'ultima porta aperta. Sul pavimento di una stanza piccolissima c'era un album da disegno con un foglio dal quale era stato cancellato un volto. Di esso rimanevano solo due occhi rossi... occhi malvagi.
Ho raggiunto il presente. Ho raggiunto adesso.
Sì, e c'era luce del sole, luce Commala dentro i suoi occhi e ad attenderlo. Era calda e inclemente sulla pelle. Il suono del vento era più forte e anche quel suono era inclemente. Spietato. Roland guardò la rampa di scale che aveva davanti; ora le sue spalle avrebbero certamente toccato le pareti, perché il passaggio era più angusto di una bara. Ancora diciannove scalini, poi la stanza in cima alla Torre Nera sarebbe stata sua.
«Vengo!» esclamò. «Se mi odi, odimi bene! Io vengo!»
Salì i gradini a uno a uno, a schiena eretta e testa alta. Le altre stanze erano aperte al suo sguardo. L'ultima era chiusa, la sua ascesa era sbarrata da una porta di legno fantasma sul quale era incisa una sola parola. Quella parola era
ROLAND
Afferrò la maniglia. Vi era cesellata una rosa selvatica avvinghiata a una rivoltella, uno dei vecchi pistoloni di suo padre, ora persi per sempre.
Ma saranno di nuovo tuoi, bisbigliarono la voce della Torre e la voce delle rose, voci che ora erano una sola.
Che cosa vuoi dire?
Non ebbe risposta, ma il pomolo ruotò nella sua mano e forse la risposta fu quella. Roland aprì la porta in cima alla Torre Nera.
Vide e capì al volo, la comprensione gli piombò addosso con la forai di un maglio, torrida come il sole del deserto che era l'apoteosi di tutti i deserti. Quante volte aveva salito quelle scale solo per essere respinto, ritorto, ricacciato indietro? Non al principio (quando le cose si sarebbero potute cambiare e si sarebbe potuta scongiurare la maledizione del tempo), bensì al momento in cui, nel deserto di Mohaine, capiva finalmente che la sua renitente, dogmatica ricerca avrebbe infine avuto successo? Quante volte aveva percorso un'ellisse come quella della fibula che una volta gli aveva stretto l'ombelico, il suo tet-ka can Gan? Quante altre volte l'avrebbe percorsa?
«Oh, no!» urlò. «Ti prego, non di nuovo! Abbi pietà! Abbi misericordia!»
Le mani lo trascinarono in avanti senza ascoltarlo. Le mani della Torre non conoscevano la pietà.
Erano le mani di Gan, le mani del ka, e non conoscevano la pietà.
Sentì odore alcalino, salato come lacrime. Il deserto oltre la porta era bianco; accecante; arido; amorfo salvo che per l'abbozzo labile e nebuloso delle montagne all'orizzonte. L'odore sotto quello dell'alcale, era l'odore dell'erba diavola che portava dolci sogni, incubi, morte.
Ma non per te, pistolero. Mai per te. Tu traspari. Tu sfumi. Devo essere brutalmente franco! Tu vai avanti.
E ogni volta dimentichi l'ultima volta. Per te ogni volta è la prima volta.
Compì un ultimo sforzo per ritrarsi: inutile il ka era troppo forte.
Roland di Gilead varcò la soglia dell'ultima porta, quella che aveva sempre cercato, quella che aveva sempre trovato. Si chiuse dolcemente dietro di lui.
8
Si fermò per un momento, dondolando sui piedi. Aveva l'impressione di aver quasi perso i sensi. Era stato il caldo, naturalmente, quel caldo maledetto. Tirava vento, ma era un vento secco e non recava sollievo. Prese l'otre, giudicò dal peso quant'acqua gli restava, sapeva che non avrebbe dovuto bere - non era ora di bere - e nondimeno bevve un sorso.
Per un momento gli era sembrato di essere altrove. Nella Torre stessa, magari. Ma naturalmente il deserto era ingannevole e pieno di miraggi. La Torre Nera ancora a migliaia di ruote da lui. Quella sensazione di aver salito infiniti gradini e guardato in infinite stanze dove infinite facce guardavano lui, si andava già dissolvendo.
Ci arriverò, pensò socchiudendo gli occhi per guardare il sole spietato. Giuro sul nome di mio padre che ci arriverò.
E forse questa volta quando ci sarai arrivato sarà diverso, sussurrò una voce. E non poteva essere che la voce del delirio del deserto, perché quando mai ci era già arrivato? Era ciò che era e dove era, niente di più e niente di meno. Non aveva senso dell'umorismo e scarsa era la sua immaginazione, ma era tenace. Era un pistolero. E nel suo cuore, ben nascosto, ancora viveva l'agrodolce fascino romantico della ricerca.
Tu sei quello che non cambia mai, gli aveva detto una volta Cort e nella sua voce Roland avrebbe giurato di aver sentito paura... ma perché poi Cort avrebbe dovuto aver paura di lui, un ragazzo, Roland non aveva saputo dire. Sarà la tua dannazione, figliolo. Consumerai cento paia di stivali e camminerai all'inferno.
E Vannay: Coloro che non imparano dal passato sono condannati a ripeterlo.
E sua madre: Roland, ma devi essere sempre così serio? Non puoi mai riposare?
Ma la voce bisbigliò di nuovo
(diverso questa volta magari diverso)
e veramente Roland ebbe l'impressione di sentire un odore diverso da quello alcalino e dell'erba diavola. Pensò che potessero essere fiori.
Pensò che potessero essere rose.
Si trasferì il fagotto da una spalla all'altra, poi toccò il corno che portava appeso alla cintura, dietro la pistola, sull'anca destra. L'antico corno d'ottone che un tempo suonava lo stesso Arthur Eld, o così si narrava. Roland lo aveva donato a Cuthbert Allgood a Jericho Hill e quando Cuthbert era caduto, Roland si era attardato giusto il tempo per raccoglierlo e soffiare via dalla sua gola la polvere di morte di quel luogo.
Questo è il tuo sigul, sussurrò la voce che, spegnendosi, portava con sé la dolce fragranza crepuscolare delle rose, il profumo di casa in una sera d'estate - o perduta! - un sasso, una rosa, una porta introvata; un sasso, una rosa, una porta.
Questa è la tua promessa che potrà essere diverso, Roland, che non è persa la speranza che ci sia riposo. Persino redenzione.
Una pausa e poi:
Se resisterai. Se avrai fede.
Scosse la testa per schiarirsela, pensò se bere un altro sorso d'acqua e rinunciò. Stanotte. Quando avesse preparato il suo fuoco sulle ossa di Walter. Allora avrebbe bevuto. Ora invece...
Ora invece avrebbe ripreso il suo viaggio. Laggiù c'era la Torre Nera. Più vicino, però, molto più vicino, c'era l'uomo (era un uomo? Lo era davvero?) che avrebbe forse potuto dirgli come arrivarci. Roland lo avrebbe raggiunto e allora quell'uomo avrebbe parlato: aye, sì, yar, raccontano in montagna come l'hai udito nella valle: Walter sarebbe stato preso e Walter avrebbe parlato.
Roland toccò di nuovo il corno e la sua consistenza gli procurò uno strano senso di conforto, come se non lo avesse mai toccato prima.
È ora di andare.
L'uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì.
19 giugno 1970 - 7 aprile 2004
A Dio dico grazie
APPENDICE
«Childe Roland
alla Torre Nera giunse»
di Robert Browning
I
Il mio primo pensiero fu, ogni parola sua una bugia,
Quello storpio canuto, il cui occhio malvagio
Di sbieco misura nei miei l'effetto della sua menzogna
E la bocca non riesce a sopprimere del tutto
Negli angoli increspati, la gioia che prova
Per aver fatto una nuova vittima.
II
Per quale altro proposito sarebbe lì, col suo bastone,
Quale, se non tendere agguati menzogneri, abbindolare
Tutti i viandanti che lo trovino ivi appostato
E gli chiedano la via? Immaginai la risata da teschio
Che scoppierebbe, l'epitaffio che si metterebbe a tracciare
Con la sua gruccia per passatempo nella polvere della via.
III
Se dietro suo consiglio dovessi incamminarmi
Per quella strada sinistra che, tutti sappiamo,
Nasconde la Torre Nera. Pure docilmente
Girai dalla parte che mi indicava, senza che l'orgoglio
O la speranza rinascessero in vista della fine,
Quanto il sollievo perché fine infine fosse.
IV
Poiché nei miei viaggi in lungo e in largo,
Nella mia ricerca prolungatasi per anni, la speranza
Si era attenuata in un fantasma inadeguato alla felicità
Strabordante che la riuscita porterebbe,
Non provai neppure ora a censurare il balzo
Che spiccò il mio cuore nel considerare un insuccesso.
V
Come quando un infermo molto vicino alla morte
Appare morto davvero e sente l'avvicendarsi
Dei pianti e riceve l'estremo saluto degli amici,
Ode l'uno frenarsi, l'altro sospirare più liberamente
All'esterno ('giacché tutto è finito', dice
'E una tragedia che il cordoglio non può lenire')
VI
Quando gli altri discutono se accanto alle altre tombe
Ci sia posto per quella nuova e quale giorno
Sia più appropriato per la processione funebre
E ci si preoccupa di paramenti e corone,
E lui ancora ode tutto e desidera soltanto
Di non svilire tanto amore rimanendo in vita.
VII
Così io stesso tanto avevo sofferto in questa ricerca,
Tante profezie di insuccesso avevo subito, ero stato iscritto
Tante volte nella «Banda», uno cioè dei cavalieri
Che volsero i passi alla ricerca della Torre Nera,
Che mi sembrava giusto fallire come loro,
E ora mi tormentava il dubbio: ne sarò capace?
VIII
Così, muto come la disperazione voltai le spalle,
A quell'odioso storpio, abbandonando la via maestra
Per il sentiero indicatomi. Tutta la giornata era stata
Al meglio bigia, ed era ormai prossima la notte,
Ma ancora brillò un rosso cipiglio di luce
Sul viaggiatore alla deriva, prigioniero della pianura.
IX
Attenzione! Mi ero appena consegnato alla pianura,
Dopo un passo o due soltanto, quando fermandomi
Per un ultimo sguardo all'indietro alla via sicura
La trovai scomparsa: distesa grigia tutt'intorno,
Nient'altro che pianura fino all'orizzonte.
Tanto valeva proseguire, non restandomi alternativa.
X
Dunque proseguii. Credo di non aver mai visto
Natura più ignobile e affamata; nulla prosperava:
Fiori? Tanto varrebbe sognare un bosco di cedri!
Ma zizzania e cipressina, secondo propria natura
Potevano propagarsi senza timore, avresti detto;
Una lappola sarebbe stata il ritrovamento di un tesoro.
XI
No! Penuria, immobilità e bruttezza,
In uno strano modo, regnavano sulla piana.
'Oppure chiudi gli occhi', si contrariò Natura.
'Non c'è rimedio, non posso farci niente:
Solo il fuoco del Giudizio Estremo può salvare questo posto,
Calcinarne le zolle e liberare i miei prigionieri.'
XII
Se un cardo spinoso cresceva più alto dei compagni
La testa gli era mozzata, per la gelosia delle altre erbe.
Chi torturava di ferite e graffi le foglie dure
Del romice, martoriate oltre ogni speranza di verde?
Solo un animo bestiale può essere, che schiaccia la loro vita
Con passo e intento da bestia.
XIII
Quanto all'erba, cresceva rada come i capelli
Del lebbroso; steli sottili e secchi punteggiavano
Il fango che sotto appariva impastato col sangue.
Un cavallo rinsecchito e cieco, fascio visibile di ossi,
Sostava istupidito: pure fin qui era arrivato:
Licenziato dal suo servizio di stallone del diavolo.
XIV
Vivo! Anche morto, per quel che ne sapevo,
Con quel collo rosso, scarnificato e teso.
E gli occhi chiusi sotto la criniera arrugginita;
Raramente tanto si accompagna il grottesco al penoso;
Mai visto un orrore così odioso;
Quanto dev'essere cattivo per meritare un simile dolore.
XV
Chiusi gli occhi e li rivolsi al cuore,
Come si chiede vino prima del combattimento,
Chiesi un cenno di precedenti stati, più felici,
Prima di pensare a fare convenientemente la mia parte.
Rifletti prima, combatti poi, del soldato è l'arte:
Il gusto del tempo andato rende tutti amici.
XVI
Macché! Ricordai il volto arrossato di Cuthbert
Sotto il suo ornamento di riccioli dorati,
Caro amico, tanto che quasi l'ho sentito stringere
Il braccio intorno al mio per bloccarmi,
Come faceva lui. Ahimè, disonore d'una notte,
Si spense il fuoco nuovo nel mio cuore che si raggelò.
XVII
Poi Giles, anima dell'onore, eccolo
Valoroso come dieci anni fa, quando fu investito
Cavaliere. Ciò che uomo onesto era tenuto a osare (diceva),
Egli osava. Bene, ma... ah, la scena cambia, mani di boia
Gli appuntano una pergamena al petto. Gli sia da insegna.
Leggi. Povero traditore, sputagli addosso e maledici!
XVIII
Meglio questo presente che un passato così:
Torniamo dunque alla mia via che si rabbuia!
Non un suono, nulla fin dove si sforza lo sguardo.
Che cosa porterà la notte, civetta o pipistrello!
Mi chiesi: quando qualcosa in quella desolante piana
Mi fermò i pensieri e li guidò su un nuovo corso.
XIX
Improvviso un fiumicello attraversò il sentiero
Inaspettato come appare il serpente.
Non lo scorrere indolente adatto alla tetraggine.
Esso, con tale spumeggiare, potrebbe far da bagno
Allo zoccolo ardente del demonio: a guardare il furore
Del suo gorgo nero fiorire di scaglie e schiume.
XX
Così insignificante e così malevolo! S'incurvavano
inginocchiati tisici ontani lungo le sponde;
Salici fradici si slanciavano in una teoria suicida
Sconvolti da muta disperazione.
Il fiume artefice della loro tortura,
Quale che fosse, scorreva insensibile.
XXI
E mentre lo guadavo - per tutti i santi che paura
Di posare il piede sulla guancia di un morto,
A ogni passo, o sentire la picca che affondavo
Per sondare la profondità, impigliarsi in barba o capelli!
- Era forse un ratto d'acqua quello che infilzai,
Ma, ah! Uno strillo di bimbo mi parve di udire.
XXII
Felice fui quando guadagnai l'altra sponda.
Migliore sia ora il luogo... Vana illusione!
Chi erano i contendenti, che guerra fu la loro,
Quale furioso calpestio ridusse a pantano
Questo suolo zuppo? Rospi in una tanca avvelenata
O gatti selvatici in una gabbia rovente.
XXIII
Così dev'essere apparsa la battaglia nella bieca arena,
Ma cosa li imprigionò qui, avendo tutta la pianura?
Non un'impronta che portasse all'orrida stalla,
Non un'orma ne usciva. Un fermentare di pazzia
Nel cervello, senzaltro, come gli schiavi che il Turco
Spinge alla lotta per capriccio, Cristiani contro Ebrei.
XXIV
E oltre, a trecento e più passi, oh, laggiù!
A quale uso sinistro quella macchina, quella ruota,
Gramola, non ruota: erpice adatto a dipanare
Corpi umani come seta? Con tutta l'aria
Dello strumento del tophet, sbadatamente abbandonato
O qui portato ad affilarne i denti arrugginiti.
XXV
Poi ecco una distesa di tronconi, bosco abbattuto,
Accanto a una marcita, pareva, ora nuda terra
Disperata e sfatta (così trova gusto lo sciocco,
Fa una cosa e poi la scassa, fintantoché il gioco
Non gli venga a noia) per un ampio tratto -
Acquitrino, argilla, pietrisco e sabbia e il nero crudo del nulla.
XXVI
Qui chiazza suppuravano grigie e scure,
Là zone dove il terreno sottile erompeva
In muschio o sostanze come di bubboni;
Ed ecco una quercia tremolante, con una piaga
Come una bocca distorta che si va lacerando
Spalancata sulla morte, e muore mentre ripiega.
XXVII
E ancora come mai lontano dalla fine!
Null'altro alla distanza che la sera, nulla
A indicarmi il cammino! A quel pensiero
Un grande uccello nero, amico del cuore di Apollion,
Sfrecciò sfiorando il mio copricapo con le ampie ali
Da drago: forse la guida che cercavo.
XXVIII
Perché alzando lo sguardo mi accorsi
Nonostante il buio, che la pianura si era arresa
A monti tutt'intorno, usando un eufemismo
Per brutte vette e ammassi che ingombravano la vista,
Quanto mi sorpresero, a voi immaginarlo!
Come allontanarmene non mi era punto chiaro.
XXIX
Ebbi tuttavia una mezza impressione di un trucco
Maligno ai miei danni. Dio solo sa quando -
in un brutto sogno forse. Qui dunque si arrestava
Il mio precedente cammino. E nel momento stesso
Della mia resa, di nuovo udii uno scatto
Come il chiudersi di una trappola: ci sei dentro.
XXX
Come una fiammata mi prese all'improvviso:
Ero arrivato! Quei due colli a destra
Ingroppati come tori agganciati per le corna nella lotta;
Mentre a sinistra un'alta montagna calva... Somaro,
Stolto, rintontirti proprio adesso, dopo una vita
Trascorsa a preparati per questa scena.
XXXI
Cosa c'era nel mezzo se non la Torre stessa?
Il bastione, tozzo cilindro, cieco come il cuore dell'idiota,
Di pietra bruna, senza uguale
Nel mondo intero. L'elfo irridente della tempesta
Indica così al navigante l'invisibile scogliera
Quando il fasciame trema a urto avvenuto.
XXXII
Non vedi? Per colpa della notte? - Ah ma il giorno
Ritornò per questo! Prima di andarsene il tramonto
Morente guizzò attraverso una fessura:
I colli, come giganti in caccia, erano appostati,
Mento sulla mano, a guardare la preda senza scampo, -
Ora affonda la lama e uccidi - fino all'elsa!'
XXXIII
Non senti? Ma se rumoreggiava il mondo! Clangore
Crescente come di campana. Nomi nelle orecchie
Di tutti gli avventurieri persi, miei pari -
Come l'uno era forte, l'altro ardito,
E un altro fortunato, ma tutti persi, perduti!
Un solo rintocco funebre per anni di lutti.
XXXIV
Erano laggiù, allineati ai piedi dei pendii, venuti
A vedermi per l'ultima volta, cornice vivente
All'immagine finale! In una cortina di fiamme
Li vidi e tutti riconobbi. Ciononostante intrepido
Mi portai alle labbra il corno da guerra,
E soffiai. 'Childe Roland alla Torre Nera giunse.'
Nota dell'autore
Certe volte penso di aver scritto più sui libri della Torre Nera di quanto abbia scritto sulla Torre Nera stessa. Fra questi scritti c'è la crescente sinopsi (quella intitolata Tema) e le varie postfazioni (perlopiù del tutto superflue e alcune decisamente imbarazzanti, viste con il senno di poi). Michael Whelan, lo straordinario artista che ha illustrato il primo volume e quest'ultimo, ha dimostrato di cavarsela più che discretamente anche come critico letterario quando, dopo aver letto la bozza del settimo volume, ha espresso - in termini di tonificante franchezza - che la postfazione piuttosto spensierata che avevo messo alla fine fosse stridente e fuori luogo. Ci ho dato un'altra occhiata e ho visto che aveva ragione.
La prima metà di quel saggio, scritto con il cuore ma stonato, fa ora da introduzione ai primi tre volumi della serie; s'intitola Sull'avere diciannove anni. Alla fine ho pensato di lasciare il volume settimo senza postfazione; di lasciare che la scoperta di Roland in cima alla sua Torre fosse l'ultima parola sull'argomento. Poi mi sono reso conto di avere ancora una cosa da dire, una cosa che effettivamente andava detta. Ha a che vedere con la mia presenza nel libro da me scritto.
C'è un mellifluo termine accademico per questo: metafiction. Io lo odio. Ne odio la pretenziosità. Io sono presente nella storia solo perché sapevo ormai da qualche tempo (coscientemente dopo aver scritto Insomnia nel 1985, inconsciamente da quando persi per qualche tempo le tracce di padre Donald Callahan verso la fine di Le notti di Salem) che molti dei miei romanzi fanno riferimento al mondo di Roland e alla storia di Roland. Visto che ero stato io a scriverli, mi sembrava logico che facessi parte del ka del pistolero. La mia idea era di usare le storie della Torre Nera come una sorta di ricapitolazione, un modo per riunificare quante più possibile delle mie storie precedenti sotto la volta della stessa über-storia. Non l'ho mai inteso come un atto di presunzione (e spero che non lo sia), ma solo un modo per mostrare come la vita influenzi l'arte (e viceversa). Credo che, se avete letto gli ultimi tre volumi della Torre Nera, avrete visto che in questo contesto gli accenni a un mio ritiro abbiano più senso. Da un certo punto di vista non resta più niente da dire ora che Roland ha raggiunto il suo traguardo... e spero che il lettore veda che, scoprendo il Corno dell'Eld, forse il pistolero è finalmente sulla via della propria risoluzione. Forse addirittura redenzione. Era tutto nel raggiungimento della Torre, capite? La mia oltre che quella di Roland. E tanto è stato finalmente realizzato. Può darsi che non vi piaccia ciò che Roland ha trovato in cima, ma questa è tutt'altra questione. E non inviatemi lettere rabbiose, perché non vi risponderò. Non c'è più niente da dire al riguardo. Nemmeno io ero entusiasta del finale, se volete sapere la verità, ma è il finale giusto. Il solo finale, in verità. Dovete ricordare che io non mi invento queste cose, non proprio; scrivo solo ciò che vedo.
Qualche lettore si domanderà quanto «reale» sia lo Stephen King che compare in queste pagine. La risposta è «non molto», sebbene quello che Roland e Eddie incontrano a Bridgton (La canzone di Susannah) si avvicina molto allo Stephen King che ricordo di essere stato a quell'epoca. Quanto allo Stephen King che appare in quest'ultimo volume... be', mettiamola così: mia moglie mi ha gentilmente chiesto di evitare di dare ai fan della serie indicazioni troppo precise su dove viviamo o chi siamo in realtà. Ho deciso di accontentarla. Non perché volessi farlo - uno degli elementi che dà spirito a questa storia, secondo me, è nel modo in cui il mondo inventato si catapulta in quello reale - ma perché la vita di mia moglie è anche la mia e non è giusto che lei sia penalizzata perché mi ama o perché vive con me. Così ho grandemente stravolto la geografia del Maine occidentale e confido che i lettori sappiano afferrarne i motivi e capiscano perché ho manomesso la parte che mi riguarda direttamente. E se vi viene la voglia di fare un salto per un saluto, vi prego di ripensarci. Io e mia moglie godiamo di molta meno privacy di un tempo e non desidero che essa venga ulteriormente ridotta, vi sia gradito. I miei libri sono il mio modo di conoscervi. Che sia anche il vostro modo per conoscere me. E per conto di Roland e di tutto il suo ka-tet - ora sparpagliato, dico scusa - vi ringrazio di avermi accompagnato e di aver condiviso con me questa avventura. Mai in vita mia ho lavorato tanto a un progetto e so - meglio di chiunque, ahimè - che non mi è riuscito al cento per cento. Ma quando mai accade a un lavoro di fantasia? Ciononostante non rinuncerei a un singolo minuto del tempo che ho vissuto nel dove e quando di Roland. Quei giorni nel Medio-Mondo e nel Fine-Mondo sono stati assolutamente straordinari. Quelli sono i giorni in cui la mia immaginazione era così limpida che sentivo l'odore della polvere e lo scricchiolio del cuoio.
STEPHEN KING
21 agosto 2003
FINE